Il divieto di realizzazione di opere edilizie all’interno della fascia di servitù dei corsi d’acqua demaniali è regolato dall’articolo 96 lett. f), del Regio Decreto 25 luglio 1904 n. 523, ma riveste carattere assoluto ed inderogabile?
La norma di riferimento è il citato Regio Decreto n. 523 del 1904 e stabilisce che sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese:
lettera f) Le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi;
In tale ambito è da ritenere legittimo il diniego di sanatoria per un fabbricato realizzato all’interno della fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d’acqua demaniali ha carattere assoluto ed inderogabile.
Pertanto, nell’ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l’articolo 33 della legge 28 gennaio 1985, n. 47 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree.
Come afferma costantemente la giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla lettera f) del predetto articolo 96 del Regio Decreto n. 523 del 1904, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (Cassazione civile, SS.UU., 30 luglio 2009, n. 17784).
È ben vero che la lettera f) dell’articolo 96, che qui viene in questione, commisura il divieto alla distanza “stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località” e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza “minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Sennonché – come è stato più volte affermato in giurisprudenza – alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d’acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale.
Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l’eventuale deroga.
Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l’utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi (Consiglio di Stato, Sezione IV, 29 aprile 2011, n. 2544).
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