Ho riletto con attenzione i commenti pervenuti al mio secondo intervento, Liberalizzazioni, gli albi professionali come club esclusivi?; non ho intenzione di rispondere puntualmente a tali note, anche perché l’aprire dibattiti non è nelle mie corde.
Dico solo che l’intenzione non era quella o solo quella di contestare l’obbligatorietà di iscrizione alle organizzazioni accennate, ma si rivolgeva essenzialmente alla nostra tendenza al mondo chiuso, che si esprime generalmente nella volontà di appartenenza ad un qualsiasi ambiente che ci appare indispensabile per essere protetti dalla nefasta ingerenza degli “esterni”.
Secondo me, se non ci liberiamo, almeno un po’, da questa psicologia ancestrale saranno assai ardui i tentativi di liberalizzazioni più o meno incisive. Anche se tale psicologia non è una nostra esclusiva prerogativa – basti pensare alle resistenze europee verso qualsiasi forma di amalgama -, non per questo si può negare che il fenomeno è da noi molto più accentuato, data la “sacralità” che viene spesso attribuita a qualsiasi identificazione con i piccoli mondi a cui sentiamo di appartenere.
E ciò mi appare valido anche per le organizzazioni professionali: non solo si stabiliscono delle gerarchie fra di esse, ma anche nel loro interno: serie A, B, junior, laureati e non, e tante altre di cui ho scarse notizie, anche perché, alla mia età, l’interesse che provo per simili “scalette” di importanza è pressoché nullo.
Ho letto ultimamente del tentativo di unificare tutte le categorie tecniche in un unico albo, fatta salva, comunque, la gerarchia che sembra determinare l’irrinunciabile “prestigio” attuale; secondo me, basterebbe definire precisamente le mansioni di ogni singolo tecnico, secondo le specifiche specializzazioni, per organizzare l’albo onnicomprensivo, sempre che si ritenesse necessario conservare l’obbligatorietà all’iscrizione; mi rendo comunque conto che, attualmente, l’aleatoria definizione delle mansioni tecniche fa sì che vi siano sovrapposizioni di competenze, le quali ultimami appaiono volute, per dare modo agli iscritti dei vari ordini e albi di spaziare su tutti i possibili campi professionali più o meno consentiti (polivalenza).
Certo è che se non si specificasse bene il titolo davanti al proprio cognome, coloro i quali fossero in possesso di uno ritenuto più prestigioso si sentirebbero psicologicamente defraudati da una simile dimenticanza.
A tal proposito, inserisco di seguito un paragrafo del mio saggio L’appartenenza del 2009 (ahimè, mi cito di nuovo), che mi sembra attinente a quanto ho qui tentato di chiarire, con la promessa che non mi occuperò più dell’argomento; in futuro, ammesso che trovi il tempo fra una visita specialistica e l’altra (di routine), come ho già convenuto con l’Editore di Ediltecnico, proverò a scrivere dei piccoli “lampi” di topografia, che non credo inutili.
Il titolo
“A dotto’, venghi puro vanti così” è la classica frase del posteggiatore abusivo “romano”, nel guidare al parcheggio un qualsiasi automobilista; siamo tutti dottori, sentendoci intimamente gratificati del titolo che furbescamente ci viene appioppato.
La questione legata al titolo mi appare ancestrale; il capo tribù, il reuccio, lo stregone, il generaletto e qualsiasi altro membro dell’establishement (classe dirigente) del villaggio agricolo primordiale, oltre che dal comportamento, dovevano anche distinguersi da un epiteto altisonante, che rendesse loro merito della posizione gerarchica nel “neolitic-vip-club” a cui appartenevano.
A tal riguardo, ritengo che, da quei primordi, le cose si siano ampliate in maniera “esponenziale”, assumendo spesso i titoli delle connotazioni sacrali, le cui pronunce alcune volte sono divenute dei veri e propri tabù (è ancora così?).
Nel nostro mondo occidentale l’escalation è stata travolgente, fino ad appropriarsi di quei complicatissimi appellativi settecenteschi, che hanno segnato un culmine irraggiungibile, anche se, nelle epoche posteriori, la spocchia del titolo non è andata scemando di molto.
L’Ottocento italico è stato caratterizzato da una specie di depressione che ha colpito l’emergente classe borghese (?), imprenditoriale e commerciale, che mal sopportava l’esclusione dai circoli aristocratici di quei tempi, i “vip-club patrizi”, i quali ultimi erano ancora fortemente influenti, anche in ambito politico. L’essere considerati dei “grossier” (grossolani) era ed è ancora un cruccio per la maggior parte della gente che vuole sentirsi importante, perché l’emarginazione dai circoli ritenuti prestigiosi può innescare smarrimenti psicologici di non poco conto. L’apparire è uno dei paradigmi più facilmente individuabile nel nostro comportamento, e la più importante delle sue connotazioni è proprio quella dell’ambito titolo, spendibile negli ambienti adatti.
Un mio ottocentesco prozio (fratello di mio bisnonno), ricco commerciante romano, si creò uno stemma di famiglia, forse abbinato a un titolo nobiliare; l’emblema fa ancora bella mostra sotto l’impettito mezzobusto della tomba dell’avo nel Pincetto, parte prestigiosa dell’ormai storico cimitero del Verano in Roma. Tale inumazione fu di ripiego, perché, pur avendo egli acquistato una tomba con lapide sul pavimento di S. Lorenzo in Damaso, chiesa cinquecentesca allora molto ambita, non gli fu lì permessa la futura inumazione dalle leggi del nuovo Stato italiano, insediatosi a Roma dal 1870 in poi: è rimasta solo la lapide con nome, che non copre niente e nessuno.
Un compagno di università, neolaureato e neo impiegato, mi disse che la cosa più gratificante per lui era quella di farsi chiamare “ingegnere” dal personale di contorno. Un altro amico, anch’egli neolaureato, nelle sue frequentazioni notturne di locali alla moda, mi confessò della elargizione di non indifferenti mance per far annunciare all’altoparlante del locale che “l’ingegnere tal dei tali (cioè lui) è urgentemente chiamato al telefono”.
Il professore, il cavaliere, il dottore, l’ingegnere, l’architetto, l’eminenza, l’eccellenza, l’onorevole, il senatore, il presidente, il commendatore, il comandante, il generale, l’avvocato, il commissario, il giudice, il preside, il sindaco, il consigliere e così via dicendo, sono gli ambiti titoli che distinguono le persone fin nel proprio bagno. Eh sì, perché la mansione legata alla qualifica, più o meno meritata e veritiera, non è solo necessaria alla gerarchia che si stabilisce in ambito professionale, funzionale all’organizzazione per cui si lavora; bensì il titolo acquisito, fa intimamente parte della persona che lo possiede, titolo che deve distinguere l’individuo anche nel più vasto mondo sociale, specialmente nel bar sotto casa.
Si badi bene che questo modo di proporsi ha risvolti psicologici e sociali non indifferenti; la mancanza di un titolo da esibire, anche fra amici e parenti, può essere causa di notevoli frustrazioni, e la dimenticanza nel dare il giusto appellativo prima del nome e cognome può risultare offensiva.
Esiste anche nei titoli una gerarchia, che spesso emargina le persone in possesso di quelli che sono ritenuti meno importanti. In casa di un amico discutevamo animatamente dell’apporto del latino come sostrato indispensabile all’idioma italiano. Le mie argomentazioni tendevano a dimostrare che l’apprendimento di qualsiasi lingua viva può anche fare a meno dello studio di quella morta di origine, essendo il comune linguaggio un sistema di regole grammaticali e sintattiche codificate con cui dare al discorso un senso logico; è un sistema che si può apprendere senza un inutile massiccio approfondimento degli antichi linguaggi, auspicato con grande convinzione dal mio ospite per tutta la durata scolastica, dall’asilo all’università.
Mi parve ovvio che l’amico, proveniente dal liceo classico, faceva dello studio del latino non tanto una cosa utile, ma una sorta i segno distintivo di appartenenza, una caratteristica di classe sociale, tanto da spingersi ad affermare che non conosceva nessun ragioniere che si fosse cimentato nella narrativa. Secondo questa superficiale affermazione, il ragioniere, mancando degli “studi classici”, non ha la minima possibilità di comporre una poesia o di scrivere un romanzo, sottintendendo che anche i geometri, i periti industriali e quelli agrari, nonché tutti i possessori di diploma orbato del latino, fossero alla stregua del ragioniere.
È un nostro retaggio storico giudicare le persone dal titolo; per essere convenientemente considerati in ambito pubblico, ma anche in quello privato, è bastante il titolo ostentato; è un’altra conferma del nostro dogmatico modo di proporci, che tende ad escludere l’approccio pragmatico, senz’altro meno “pericoloso”.
Il “mister”, il “monsieur”, l’ “herr”, il “seňor”, in ambito europeo ed extraeuropeo, sono normalmente i soli titoli che accompagnano il nome di una persona, qualsiasi studio abbia conseguito e qualsiasi carica rivesta; invece, dalle nostre parti “signore” è un appellativo anonimo sicuramente fastidioso, con la forte tendenza a sostituirlo con un bel titolo alla moda, magari acquistato, come fece il mio ottocentesco prozio”.
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