In giurisprudenza si registrano due orientamenti contrastanti.
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In alcune pronunce, stante la stretta interpretazione del comma 4 dell’art. 15 del Testo Unico Edilizia (secondo cui il titolo edificatorio decade anche con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il triennio dalla data di inizio), si è affermato che non è possibile procedere alla concessione della proroga in tale contesto[1].
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In altre, al contrario, si è affermata la concedibilità della proroga a condizione che i lavori siano iniziati entro l’anno dal rilascio del titolo e siano sopravvenuti fatti rilevanti, non dipendenti dalla volontà del titolare, idonei a giustificare il provvedimento favorevole[2].
I giudici liguri hanno confermato l’orientamento prevalente.
Nel caso specifico, il titolare di un permesso di costruire richiedeva una proroga del termine di ultimazione dei lavori per cause non dipendenti dalla propria volontà (avverse condizioni atmosferiche ed interferenza di un cantiere contiguo). L’ufficio tecnico comunale negava la proroga in quanto, dopo il rilascio del permesso di costruire, è intervenuta una nuova disciplina urbanistica incompatibile con l’intervento edilizio originariamente assentito, visto che prevede un indice di fabbricabilità inferiore e prescrive la qualifica di imprenditore agricolo professionale in capo al titolare del permesso. Il provvedimento di diniego veniva impugnato dinanzi al giudice amministrativo.
Come evidenziato dai giudici liguri nella sentenza citata, l’orientamento favorevole alla concessione della proroga anche nel caso di sopravvenuta disciplina urbanistica, purché i lavori siano regolarmente iniziati, appare preferibile in virtù dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità, giacché meglio contempera l’interesse dell’Amministrazione all’applicazione della nuova disciplina urbanistica con quello del privato all’esecuzione dell’intervento edilizio già assentito, regolarmente avviato e non concluso per fatto a sé non imputabile.
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Pertanto, alla stregua delle tracciate coordinate ermeneutiche, nel caso in esame ricorrevano i presupposti per la proroga del termine di fine lavori, giacché i lavori erano utilmente iniziati prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina urbanistica ed erano stati documentati gli impedimenti oggettivi (avverse condizioni meteorologiche) che avevano impedito la conclusione degli stessi.
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[1] TAR Veneto, sez. II, nella 12 marzo 2015, n. 301; i giudici veneti hanno richiamato, a supporto, la risalente pronuncia n. 19101/2008 della Corte di Cassazione, sez. III pen., nella quale era stato affermato quanto segue: “Va anzitutto sottolineato che le norme sulla proroga devono considerarsi di stretta interpretazione, perché costituiscono una deroga alla disciplina generale dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori assentiti, la quale è dettata per assicurare la regolarità urbanistica dell’attività di trasformazione del territorio, in modo da evitare che una edificazione autorizzata nel vigore di un determinato regime urbanistico venga realizzata quando il mutato regime non la consente più. Orbene, per quanto interessa il caso di specie, la disciplina consente la proroga, con provvedimento motivato, soltanto quando siano sopravvenuti fatti estranei alla volontà del titolare della concessione o del permesso di costruire, che impediscono in modo assoluto il rispetto dei termini prescritti. In conformità del predetto criterio ermeneutico, il Consiglio di Stato ha precisato che “in materia di concessione edilizia, la domanda di proroga del termine di ultimazione dei lavori stabilito nella concessione deve fondarsi su circostanze sopravvenute ed estranee alla volontà del concessionario, che abbiano reso obiettivamente impossibile concludere l’attività edificatoria” (C. St., Sez. V, n. 300 del 1.3.1993, […]). La consolidata giurisprudenza amministrativa ha individuato questo impedimento nel factum principis (come un’ordinanza di sospensione dei lavori, o un sequestro del cantiere, rivelatisi poi illegittimi) o nella causa di forza maggiore (come una pubblica calamità). Secondo la ratio che governa l’istituto, peraltro, la proroga non può essere più accordata quando siano sopravvenute previsioni urbanistiche incompatibili con l’intervento assentito. Nient’altro che questo, infatti, è il significato della succitata disposizione (che è – si ripete – di stretta interpretazione), secondo cui il permesso di costruire decade quando entra in vigore una disciplina urbanitica contraria, a meno che i lavori siano stati già iniziati e vengano completati nel termine ordinario dei tre anni. In altre parole, il termine decadenziale non ammette proroga quando il regime urbanistico sopravvenuto non consente più la realizzazione dell’intervento”.
[2] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 21 dicembre 2021, n. 8477: “l’art. 15 prevede poi al comma 4 sopra riportato un’ipotesi particolare, quella che rileva ai fini di causa: nel caso di sopravvenienza di previsioni urbanistiche incompatibili, il permesso decade immediatamente, “salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”. Lo specifico di questa fattispecie sta, come evidente, nel fatto che ove sopravvengano le previsioni incompatibili, l’unico modo per salvare l’efficacia del permesso è avere già iniziato i lavori, senza che il titolare disponga più del relativo termine di un anno assegnatogli dall’art. 15 comma 2 prima parte nel caso generale. Per il resto, però, non vi sono innovazioni rispetto alla disciplina generale, nel senso che la proroga del termine per ultimare i lavori è possibile ove vi siano entrambi i presupposti richiesti nel caso generale stesso, ovvero l’inizio effettivo e la non imputabilità del ritardo nel completarli. Ognuno di questi presupposti è poi necessario, sì che la mancanza di uno solo di essi preclude il rilascio della proroga, senza che vi sia bisogno di prendere in considerazione l’altro”; TAR Lombardia, Milano, sez. II, sent. 27 agosto 2014, n. 2262: “…la ratio dell’articolo 15, comma 4 del d.P.R. n. 380 del 2001 è quella di assicurare l’esigenza di garantire l’indefettibile applicazione delle sopravvenute previsioni pianificatorie, in quanto volte ad un più razionale assetto del territorio (Cons. Stato, Sez. IV, 7 settembre 2011, n. 5028). A fronte di tale rilevante interesse pubblico, il legislatore ha inteso stabilire esattamente, già a livello di normazione primaria, il punto di bilanciamento rispetto al contrapposto interesse del privato che, alla data di entrata in vigore del piano, sia munito di un titolo edilizio in contrasto con il nuovo strumento. In tale prospettiva, la disciplina normativa vigente stabilisce che, ordinariamente, l’interesse del privato assuma carattere recessivo, dovendo obbligatoriamente dichiararsi la decadenza del titolo incompatibile con il piano successivamente entrato in vigore, salva l’ipotesi – da considerare come eccezione rispetto alla regola della decadenza (Cons. Stato, Sez. IV, n. 5028 del 2011, cit.) – in cui l’interessato abbia già dato avvio all’intervento cui era stato autorizzato. Ciò all’evidente scopo di evitare che possano rimanere incompiute edificazioni che abbiano ormai determinato una significativa trasformazione dello stato dei luoghi e, inoltre, al fine di tutelare l’affidamento particolarmente qualificato di colui che non solo sia munito del titolo (condizione, questa, di per sé non sufficiente), ma abbia realmente cominciato a darvi esecuzione, impegnando per tale finalità le proprie risorse”; TAR Lombardia, Milano, sez. II, sent. 27 agosto 2014, n. 2262: “Il comma 4, prevede la seconda ipotesi di decadenza, nelle ipotesi in cui entrino in vigore contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio. La regola generale della decadenza del titolo edilizio in contrasto col nuovo piano regolatore trova la sua ratio nell’esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche devono trovare indefettibile applicazione (salva la possibilità per l’interessato di impugnarle), in quanto volte – per definizione – ad un più razionale assetto del territorio, per soddisfare gli interessi pubblici e privati coinvolti. Infatti, quando un nuovo piano determina le aree destinate all’edificazione e soddisfa gli standard eliminando la natura edificatoria di alcune aree determinate nel piano precedente, vi sarebbe l’alterazione delle previsioni urbanistiche e un irrazionale assetto del territorio (con la violazione della normativa sugli standard) se fossero edificate sia le aree indicate nel nuovo piano, sia quelle indicate nel piano precedente, ma destinate a servizi in quello successivo. Per contemperare gli opposti interessi, l’art. 15, comma 4, del testo unico (così come il precedente art. 31 della legge n. 1150 del 1942) ha previsto una eccezione alla regola generale, che si ha quando i lavori precedentemente assentiti – pur contrastando col piano sopravvenuto in vigore – possano continuare ad essere realizzati se già cominciati nel vigore del piano precedente (e se siano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio)”.
Immagine: iStock/Floriana
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