Martedì, come di consueto, presentiamo una selezione delle massime di sentenze per le materie dell’edilizia e dell’urbanistica pubblicate la scorsa settimana: la ricostruzione di un rudere è ristrutturazione edilizia o è necessario accertarne la preesistente consistenza? Come prova della data di un abuso, vale la dichiarazione del costruttore a distanza di anni? La destinazione a verde pubblico attrezzato e a servizi pubblici che vincolo conformativo comporta?
E ancora: destinazione d’uso di fatto, che rileanza ha? Le obbligazioni da convenzioni urbanistiche, vanno adempiute da chi ha stipulato la convenzione edilizia e anche dai richiedenti il permesso di costruire? E da chi altro?
Vediamo in dettaglio questa ricca settimana di sentenze!
Ricostruzione di un rudere: è ristrutturazione edilizia?
TAR Liguria, sez. I, sent. 21 ottobre 2019 n. 782
La ricostruzione di un rudere è un’ipotesi di ristrutturazione edilizia se è possibile accertarne la preesistente consistenza
Per costante orientamento della giurisprudenza, il ricupero o la ricostruzione di un rudere è riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia, qualora sia possibile accertarne la preesistente consistenza (T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 11 giugno 2019, n. 3162), ovvero, in mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da ricuperare, in quello della nuova costruzione (T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 26 settembre 2017, n. 1167).
In nessun caso, pertanto, la ricostruzione di un rudere può rientrare nella categoria del restauro e risanamento conservativo (T.A.R. Toscana, Firenze, sez. I, 16 maggio 2017, n. 692; T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 28 luglio 2015, n. 1764).
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Prova della data di un abuso, vale la dichiarazione del costruttore dopo anni?
TAR Veneto, sez. II, sent. 23 ottobre 2019 n. 1122
Insufficiente la dichiarazione del costruttore, rilasciata dopo anni di distanza, per provare la data della realizzazione dell’abuso ai fini del condono
Come noto, “L’onere della prova dell’ultimazione entro una certa data di un’opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, perché realizzate legittimamente senza titolo, incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l’epoca di realizzazione del manufatto” (cfr. Cons. St., Sez. VI, 13 novembre 2018, nr. 6367).
Quanto alle prove che possono essere allegate in giudizio, al fine di assolvere all’onus probandi del quale si è detto, costante giurisprudenza osserva che “Per quanto riguarda, poi, la gamma degli strumenti probatori ammissibili ai fini della prova del momento di realizzazione dell’abuso, un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che le dichiarazioni sostitutive di notorietà non siano utilizzabili nel processo amministrativo e che non rivestano alcun effettivo valore probatorio, potendo costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti, non risultano ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione – ovvero, le deduzioni con cui la stessa amministrazione rileva l’inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente – (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 29 maggio 2014 n. 2782 e 27 maggio 2010 n. 3378).
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Infatti, anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente l’ultimazione dell’edificio entro la data fissata dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull’epoca dell’abuso – non si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei lavori (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24 dicembre 2008 n. 6548)” (Cons. St., 11 aprile 2019, nr. 3696).
Ne discende, dunque, in applicazione dei principi dinanzi richiamati, che la prova offerta dall’interessato, risolventesi nella sola dichiarazione del costruttore, resa peraltro a distanza di ben 9 anni dall’asserita epoca di effettuazione dell’intervento, non può considerarsi dimostrazione sufficiente della data di ultimazione dell’intervento. In mancanza dell’allegazione di altri elementi, dai quali inferire la dimostrazione della fondatezza della prospettazione dell’interessato quanto all’epoca di ultimazione dell’abuso, diventa legittimo il conseguente diniego opposto dall’Amministrazione.
Destinazione d’uso di fatto, quale rilevanza?
TAR Veneto, sez. II, sent. 23 ottobre 2019 n. 1126
La destinazione d’uso giuridicamente rilevante di un immobile è unicamente quella prevista da atti amministrativi pubblici, di carattere urbanistico o catastale, dovendosi del tutto escludere il rilievo di un uso di fatto
La destinazione d’uso è un elemento che qualifica i beni immobili e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione, in quanto individua i beni sotto il profilo funzionale, specificando le destinazioni fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della qualità e quantità degli standard necessari a seconda della specifica destinazione.
La giurisprudenza ha costantemente affermato (cfr. da ultimo Tar Veneto, Sez. II, 15 luglio 2019, n. 835; nello stesso senso Consiglio di Stato, Sez. IV, 26 marzo 2013, n. 1712; Tar Valle d’Aosta, Sez. I, 19 settembre 2013, n. 62; Tar Liguria, Sez. I, 11 luglio 2011, n. 1086; Tar Puglia, Bari, Sez. II, 23 novembre 2009, n. 2898), che “la destinazione d’uso giuridicamente rilevante di un immobile è unicamente quella prevista da atti amministrativi pubblici, di carattere urbanistico o catastale, dovendosi del tutto escludere il rilievo di un uso di fatto che in concreto si assume sia stato praticato sull’immobile, risultante da circostanza di mero fatto; tale uso, quantunque si sia protratto nel tempo, è comunque inidoneo a determinare un consolidamento di situazioni ed a modificare ex se la qualificazione giuridica dell’immobile (arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 26 marzo 2013, n. 1712; T.A.R. Valle d’Aosta, sez. I, 19 settembre 2013, n. 62)” con la precisazione che in assenza o indeterminatezza del titolo, vale la classificazione risultante da altri documenti probanti (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 5 maggio 2016, n. 2243).
La giurisprudenza si è orientata nel senso di riconoscere esclusiva preminenza agli elementi formali relativi alla destinazione dell’immobile, a causa dell’impossibilità, per le autorità di controllo, di accertare ex post quale fosse effettivamente l’uso di fatto dell’immobile nel passato, dato che si tratta di un elemento di conoscenza che è nell’esclusiva disponibilità del proprietario.
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Destinazione a verde pubblico attrezzato e a servizi pubblici, quale tipologia di vincolo?
TAR Lazio, Roma, sez. II quater, sent. 23 ottobre 2019 n. 12197
La destinazione quale “zona a verde pubblico attrezzato per il gioco e lo sport” e “a servizi pubblici” comporta l’imposizione di un vincolo conformativo, non oggetto di decadenza
Occorre distinguere fra il vincolo conformativo, con il quale si provvede a una zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni e nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti in funzione della destinazione dell’intera zona in cui i beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, e il vincolo espropriativo che incide in modo particolare su beni determinati in funzione della localizzazione di un’opera pubblica (ex multis e da ultimo Cons. Stato sez. IV, 19/09/2019, n.6241; Cass. civ., sez. I, 18 giugno 2018, n. 16084;Cons. Stato, sez. IV, 13 ottobre 2017, n. 4748; id., 16 giugno 2015, n. 2995).
In particolare, secondo le coordinate giurisprudenziali elaborate in materia, la destinazione quale “zona a verde pubblico attrezzato per il gioco e lo sport” così come quella “a servizi pubblici” impressa dal piano regolatore alle aree non comporta invero l’imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è funzionale all’interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell’edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale (cfr., sul tema, Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2019, n. 3190, id., 24 maggio 2018, n. 3116; id., 9 dicembre 2015, n. 5582; id., 6 ottobre 2014 n. 4976; id., 22 giugno 2011, n. 3797).
Tale vincolo quindi, non è soggetto a decadenza, in ciò differendo dai vincoli urbanistici aventi carattere particolare.
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Obbligazioni da convenzioni urbanistiche, che natura hanno?
TAR Calabria, Reggio Calabria, sent. 21 ottobre 2019 n. 600
Le obbligazioni connesse all’adempimento di convenzioni urbanistiche hanno natura “propter rem” e, quindi, vanno adempiute non solo da chi ha stipulato la convenzione edilizia, ma anche dai richiedenti il permesso di costruire, da chi realizza le opere di trasformazione edilizia e dai successivi aventi causa
Le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all’edificazione del territorio corrisponda, non solo l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 06 novembre 2009, n. 6947).
Per altro verso, le obbligazioni connesse all’adempimento di dette convenzioni urbanistiche (vuoi afferenti alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, vuoi afferenti alla cessione delle aree destinate ad accoglierle), hanno natura “propter rem” e, quindi, vanno adempiute non solo da chi ha stipulato la convenzione edilizia, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia, da colui che realizza le opere di trasformazione edilizia e, come nel caso che ci occupa, dai successivi aventi causa (ex multis T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 9 gennaio 2017, n. 187).
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