Distanza tra edifici esistenti: le pareti finestrate

La distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate di edifici esistenti e la rilevanza di una scala esterna. Ma non solo: la rassegna di sentenze.

Mario Petrulli 09/07/19

Eccoci al nostro appuntamento settimanale con le sentenze. Questa settimana, ne abbiamo ben due sulle distanze in edilizia, argomento di cui è sempre utile affrontare i curiosi risvolti: la distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e la rilevanza di una scala esterna nel calcolo delle distanze tra edifici.

Ma non solo. Parliamo anche di dimensioni di una pergotenda ai fini della qualificazione di arredo esterno, di DIA in variante al permesso di costruire (conseguenze sui termini di inizio e conclusione dei lavori) e delle conseguenze del permesso di costruire in sanatoria.

Distanza tra edifici: due nuove sentenze

Distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate: non vale per edifici esistenti

TAR Piemonte, sez. II, sent. 4 luglio 2019 n. 781

La distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti prescritta dall’art. 9 del D.M. 1444/1968 si applica soltanto in caso di nuove costruzioni, a cui può essere equiparata la ristrutturazione urbanistica; negli altri casi, ove si tratti di edifici preesistenti, va mantenuta la distanza esistente.

Secondo noti principi, la distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti prescritta dall’art. 9 del D.M. 1444/1968, in quanto volta alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igenico-sanitarie, è inderogabile, pena l’annullamento o la disapplicazione degli strumenti urbanistici e dei regolamenti contrastanti. Essa, peraltro, si applica soltanto in caso di nuove costruzioni, a cui può essere equiparata la ristrutturazione urbanistica; negli altri casi, ove si tratti di edifici preesistenti, va mantenuta la distanza esistente.

Distanze fra edifici: rilevanza di una scala esterna

TAR Campania, Salerno, sez. I, sent. 1° luglio 2019 n. 1189

La scala esterna rileva ai fini del rispetto delle distanze

Per costante indirizzo giurisprudenziale, le distanze vanno misurate dalle sporgenze estreme dei fabbricati, escludendosi soltanto quelle, assolventi a mere esigenze ornamentali, di rifinitura e accessorie di limitata entità (del tutto irrilevanti ai fini della determinazione di intercapedini o riduzione dei distacchi), quali cornicioni, lesene, mensole, grondaie e simili (c.d. “sporti”), mentre rientrano, a tutti gli effetti, nel concetto civilistico di “costruzione”, le parti, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. “aggettanti”), anche se non corrispondenti a volumi abitativi coperti, atte ad estendere ed ampliare in superficie e volumi edificabili la consistenza del fabbricato”.

Di conseguenza, una scala esterna, posta in ampliamento dell’originaria sagoma del fabbricato, contribuendo a costituire la sagoma dell’edificio, assume rilievo autonomo ai fini della rispetto delle distanze fra fabbricati.

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Pergotenda: che dimensioni deve avere per essere mero arredo esterno

TAR Calabria, Reggio Calabria, sent. 4 luglio 2019 n. 439

La pergotenda è qualificabile come mero arredo esterno solo se di modeste dimensioni

La pergotenda “è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la destinazione d’uso degli spazi esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere all’interno della categoria delle attività di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso” (Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 1777 dell’11 aprile 2014).

È stato chiarito, inoltre, che “per aversi una pergotenda occorrerebbe … che l’opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda. Nel caso in esame, infatti, trattasi di struttura con travetti lignei di una certa consistenza che sorreggono una tenda, struttura che può essere senz’altro definita solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell’edificio” (Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 5737 del 5 ottobre 2018).

Di conseguenza, non può qualificarsi come pergotenda un manufatto composto da una struttura portante in legno, con “pilastrini e travetti costituente orditura principale e secondaria della copertura”, fissata al suolo “con opportuni basamenti in cls di sostegno alla struttura”, con pavimentazione in “piastrelle di cemento 40 x 40 allettate al suolo su strato di sabbia predisposto”, tali da escludere che la struttura possa qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda ed altresì tali da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell’edificio.

DIA in variante al permesso di costruire: inizio e fine lavori

TAR Campania, Salerno, sez. II, sent. 1 luglio 2019, n. 1185

La presentazione di una DIA in variante al permesso di costruire non interrompe gli originari termini iniziali o finali entro cui effettuare l’edificazione assentita

In linea generale, “in materia edilizia l’effetto decadenziale del permesso di costruire è correlato all’automatico trascorrere del tempo che, per l’inizio dei lavori, non può essere superiore a un anno dal rilascio del titolo abilitativo” (da ultimo, T.A.R. Molise – Campobasso, Sez. I, 22.03.2019, n. 114; T.A.R. Valle d’Aosta – Aosta, Sez. Unica, 18.04.2018, n. 26).

In base a quanto evidenziato in plurime sentenze del giudice amministrativo, “L’art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, nella parte in cui specifica le ragioni che consentono la proroga dei termini di efficacia del permesso di costruire, deve essere interpretato restrittivamente, giacché tale norma costituisce una deroga alla disciplina generale dettata al fine di evitare che una edificazione autorizzata nel vigore di un determinato regime urbanistico venga realizzata quando il mutato regime non lo consente più” (T.A.R. Basilicata – Potenza, Sez. I, 30.03.2019, n. 328).

La regola che emerge dai richiamati precedenti è, dunque, quella secondo cui i destinatari di un titolo edilizio che abilita all’edificazione devono provvedere a intraprendere e concludere i lavori nei termini ivi indicati, senza che il decorso di tali termini sia, di regola, sospeso o interrotto dagli eventi che rendano più difficoltoso o incerto l’esercizio di tale attività.

Chi non ha potuto esercitare il diritto autorizzato negli stringenti termini previsti dalla legge ha l’onere di presentare un’apposita istanza di proroga dei termini, prima del loro effettivo decorso, rappresentando all’amministrazione le ragioni impeditive che abbiano precluso la completa effettuazione dei lavori nei tempi di legge.

La presentazione di una D.I.A. in variante non può, di per sé, sulla base delle su espresse coordinate teoriche, comportare un’interruzione dei termini per l’inizio e la fine dei lavori autorizzati nè costituire un nuovo dies a quo da cui computare tali termini.

La conseguenza di una simile affermazione è costituita dalla legittimità dell’operato del Comune che individua il dies a quo da cui computare il decorso del termine per l’inizio dei lavori, di cui all’art. 15 del D.P.R. n. 380 del 2001, dal momento del rilascio del permesso di costruire e non dal momento della comunicazione da parte del Comune dell’avvenuta acquisizione di tutti i pareri relativi alla D.I.A. presentata dagli interessati.

La conclusioni cui giunge il Collegio è corroborata anche da un precedente del Consiglio di Stato, il quale ha avuto modo di statuire che “Il mero rilascio di un permesso in variante all’originario permesso per costruire non fa decorrere un nuovo termine di avvio e di conclusione dei lavori, il quale va sempre determinato con riferimento al titolo edilizio originario” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.10.2017, n. 4704).

Permesso di costruire in sanatoria: conseguenze

TAR Piemonte, sez. II, sent. 2 luglio 2019 n. 749

Il permesso di costruire in sanatoria è finalizzato alla regolarizzazione degli abusi meramente formali, ossia conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione e al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria e non può riguardare, in conseguenza, interventi abusivi che necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione, salvo che si tratti di semplice completamento dei lavori già intrapresi

Per giurisprudenza costante, il permesso di costruire in sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 è finalizzato alla regolarizzazione degli abusi meramente formali – vale a dire di interventi che, pur effettuati senza il preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio, risultino conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione e al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria – e non può riguardare, in conseguenza, interventi abusivi che necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione, salvo che si tratti di semplice completamento dei lavori già intrapresi (TAR Liguria, Sez. I, sentenza n. 1003 del 16/12/2015; T.A.R. Piemonte, Sezione Prima, 4 novembre 2016, n. 1372).

Questo principio esclude l’ammissibilità del rilascio di un permesso di costruire in sanatoria subordinato alla realizzazione di opere, siano esse di demolizione o di edificazione – pur se, per quanto si è affermato, tali opere non sono da ritenersi necessarie a regolarizzare il fabbricato – e costituisce ragione ostativa al rilascio del permesso di costruire domandato dall’interessato.

In collaborazione con www.studiolegalepetrulli.it

Mario Petrulli

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