Distanze tra pareti, non valgono per le finestre con inferriate

Il DM 1444/1968 sulle distanze tra edifici fa riferimento solo alle pareti con finestre qualificabili come vedute. Questo e altro nella rassegna di sentenze..

Mario Petrulli 02/07/19
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Ecco la selezione delle sentenze più interessanti della settimana. Gli argomenti sono: il regime delle distanze fra pareti e aperture con inferriate, l’errore nel calcolo del contributo di costruzione, il certificato di agibilità e la conformità edilizia, le osservazioni al prg e la legittimazione del responsabile dell’ufficio tecnico comunale, la necessità del preavviso di diniego per la proroga del permesso di costruire. Leggiamole e commentiamole in dettaglio.

Distanze tra pareti: valgono solo per le vedute

Non si applicano alle “luci”

TAR Lombardia, Milano, sez. II, sent. 26 giugno 2019 n. 1484

Il regime delle distanze di cui all’art. 9 del DM n. 1444/1968 opera con riferimento alle pareti che presentano vedute ma non nel caso di una apertura con inferriate, qualificabile come luce

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., ad esempio, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30/11/2018 n. 2706), “… l’art. 9 del D. M. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci” (Consiglio di Stato, sez. IV, 5 ottobre 2015, n. 4628; cfr., nella giurisprudenza civile, Cassazione civile, sez. II, 20 dicembre 2016, n. 26383). L’operatività della previsione è, quindi, condizionata dalla natura delle aperture …” (v. anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 23/05/2019 n. 1168).

In merito l’art. 900 c.c. stabilisce che le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente.

Secondo la giurisprudenza (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 22.04.2015 n. 641) Si ha veduta quando è consentita non solo una comoda “inspectio” -senza l’uso di mezzi artificiali- sul fondo del vicino ma anche una comoda, agevole e sicura “prospectio”, cioè la possibilità di affaccio -con sporgenza del capo- per poter guardare di fronte, lateralmente e obliquamente. Affacciarsi, nell’uso corrente recepito dal legislatore nella definizione delle vedute, è il porsi l’osservatore di normale altezza, comodamente, senza pericolo e senza l’ausilio di alcun mezzo artificiale, col petto, protetto dall’opera, a livello superiore a quello massimo dell’opera stessa nel punto di osservazione, in modo da poter sporgere oltre tale livello il capo e vedere, anche obliquamente e lateralmente, l’immobile altrui e, nello stesso tempo, da poter esser visto dall’esterno. Per poter distinguere una veduta prospettica da una finestra lucifera, bisogna accertare, avuto riguardo non all’intenzione del proprietario, ma alle caratteristiche oggettive ed alla destinazione dei luoghi, se essa adempie alla funzione, normale e permanente non esclusiva, di dare aria e luce all’ambiente e di permettere la “inspectio” e la “prospectio” sul contiguo fondo altrui, in modo da determinare un inequivoco e durevole assoggettamento di quel fondo a tale peso. Non può sussistere veduta quando, pur essendo possibile l’affaccio attraverso un’apertura, non possa attuarsi normalmente, e cioè agevolmente e senza pericoli, la sporgenza del capo per guardare di fronte, obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino.

Una apertura con inferriate non può essere più qualificata come finestra ma come luce e, conseguentemente, non opera il regime delle distanze previste dall’art. 9 del DM n. 1444/1968.

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Contributo di costruzione: errore e ricalcolo

TAR Marche, sent. 24 giugno 2019 n. 425

La determinazione del contributo di costruzione deve essere riferita al momento del rilascio del permesso di costruire e può essere ricalcolata, entro il decennio, in caso di errore

La determinazione del contributo di costruzione, costituito dalla componente commisurata agli oneri di urbanizzazione e da quella relativa al costo di costruzione, deve essere riferita al momento del rilascio della concessione edilizia (che è il momento in cui sorge l’obbligazione contributiva), sicché ogni eventuale contestazione della determinazione stessa non può che condursi, sulla base del noto principio tempus regit actum, alla stregua delle norme vigenti e dunque applicabili nell’anzidetto momento (ex multis, T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 6 novembre 2018, n. 10729; Consiglio di Stato, sez. IV, 19 luglio 2004, n. 5197).

Quanto, poi, alla possibilità, per l’Amministrazione, di procedere alla rideterminazione del contributo concessorio, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 12 del 30 agosto 2018, intervenuta nelle more del giudizio, ha confermato il principio giurisprudenziale secondo cui detto contributo è sempre ricalcolabile nell’arco del decennio. Rinviando, per brevità, all’integrale lettura del provvedimento, ci si limita di seguito a riportare uno stralcio della citata sentenza:

a) gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio;

b) la pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento;

c) l’amministrazione comunale, nel richiedere i detti importi con atti non aventi natura autoritativa, agisce quindi secondo le norme di diritto privato, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, ma si deve escludere l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. a questa fattispecie, in quanto l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà luogo alla semplice rettifica;

d) la tutela dell’affidamento e il principio della buona fede, che in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione dell’attuazione del rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione ad una fattispecie come quella in esame nella quale, ordinariamente, la predeterminazione e l’oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione, di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, rendono vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con l’ordinaria diligenza richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta all’attuazione del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio vantato dal Comune”.

Certificato di agibilità e conformità edilizia

Che rapporto c’è?

TAR Lombardia, Milano, sez. II, sent. 26 giugno 2019 n. 1482

Il rilascio del certificato di agibilità non appare idoneo ad attestare la conformità edilizia dell’immobile

Il rilascio del certificato di agibilità non appare idoneo ad attestare la conformità edilizia dell’immobile, considerati i diversi ambiti di operatività dei citati titoli, fondati su presupposti diversi e non sovrapponibili: il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce sia stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio, sicché i diversi piani possono convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio ad entrambe le tipologie normative sia in quella patologica di una loro divergenza (Consiglio di Stato, V, 29 maggio 2018, n. 3212; T.A.R. Lazio, Roma, II bis, 4 giugno 2019, n. 7180).

Osservazioni al PRG

Il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale può farle

TAR Basilicata, sent. 28 giugno 2019 n. 513

Il Responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale può presentare osservazioni allo strumento urbanistico adottato, quando lo strumento urbanistico è stato redatto da un professionista esterno appositamente incaricato

L’art. 9 L. n. 1150/1942 non contiene un elenco tassativo dei soggetti che possono presentare le osservazioni al Piano adottato ed anche perché non sussiste alcuna incompatibilità tra la facoltà di presentare osservazioni e l’obbligo di esprimere, ai sensi dell’art. 49, comma 1, D.Lg.vo n. 267/2000, il parere di regolarità tecnica, anzi al contrario le osservazioni del Responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale e il loro eventuale recepimento da parte del Consiglio Comunale evitano l’estrinsecazione da parte del medesimo funzionario di un parere di regolarità tecnica negativo sul provvedimento finale di approvazione dello strumento urbanistico.

Diniego della proroga del permesso di costruire: necessità di preavviso

TAR Campania, Salerno, sent. 24 giugno 2019 n. 1120

Necessario il c.d. preavviso di diniego davanti a una richiesta di proroga del permesso di costruire che il Comune non intende concedere

L’art. 10 bis della Legge n. 241 del 1990 prescrive che “Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali. Non possono essere addotti tra i motivi che ostano all’accoglimento della domanda inadempienze o ritardi attribuibili all’amministrazione”.

Come più volte chiarito in giurisprudenza, “la funzione del c.d. preavviso di diniego è unicamente quella di provocare una interlocuzione sui contenuti motivi della emanando provvedimento” (T.A.R. Campania Napoli Sez. III, 14/05/2019, n. 2563; Cons. Stato Sez. II, 13/05/2019, n. 3057), favorendo dunque la ricerca di soluzioni volte all’accoglimento della pretesa dell’istante, ove ve ne siano, nell’ambito del procedimento amministrativo, anche in chiave di deflazione del contenzioso giurisdizionale.

È noto che “La mancanza della comunicazione di cui all’art. 10-bis della Legge n. 241/1990 non incide sulla legittimità sostanziale di una decisione amministrativa laddove dalle risultanze processuali emerga che la stessa, alla luce dei fatti, per come prospettati ed allegati, non avrebbe potuto avere un contenuto diverso” (Cons. Stato Sez. V, 29/04/2019, n. 2728), essendo, del resto, questa circostanza rimarcata anche dal legislatore, mediante l’art. 21 octies, comma 2, legge n. 241 del 1990.

Nondimeno, la decisione sull’istanza di proroga, presentata ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 380 del 2001, implica l’esercizio di un potere discrezionale da parte dell’amministrazione, sicché non ricorre la fattispecie delineata dal legislatore che consente di prescindere dalla necessaria interlocuzione endoprocedimentale.

Per dirla altrimenti, “L’atto di proroga, previsto dall’art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, a differenza dell’accertamento dell’intervenuta decadenza, è atto di esercizio di discrezionalità amministrativa, che presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell’avvio dell’edificazione” (T.A.R. Puglia Lecce Sez. I, 10/04/2018, n. 603).

Di conseguenza, è illegittimo il diniego di proroga del permesso di costruire non preceduto dal c.d. preavviso di diniego.

In collaborazione con www.studiolegalepetrulli.it

Mario Petrulli

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