Secondo l’art. 1122 c.c., nell’unità immobiliare di sua proprietà, ovvero nelle parti normalmente destinate all’uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all’uso individuale, il condomino non può eseguire opere che rechino danni alle parti comuni o determinino pregiudizio alla stabilità, sicurezza e al decoro architettonico dell’edificio.
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La norma, dunque, consente al condomino di eseguire opere nella porzione immobiliare di sua proprietà esclusiva, ma a condizione che tali interventi non pregiudichino la stabilità/sicurezza/decoro dell’edificio condominiale, sicché anche gli interventi su porzioni di piano di proprietà personale, perché inerenti a beni esclusivi come quelli menzionati nell’art. 1122 c.c., non possono apportare modifiche che rechino danno.
La Cassazione, chiamata a delineare il concetto di danno indicato dall’art. 1122 (nella formulazione originaria), ha specificato in più occasioni che non v’e dubbio che il concetto di danno, cui la norma fa riferimento, non vada limitato esclusivamente al danno materiale, inteso come modificazione della conformazione esterna o della intrinseca natura della cosa comune, ma esteso al danno conseguente alle opere che elidono o riducono apprezzabilmente le utilità ritraibili della cosa comune, anche se di ordine edonistico od estetico, per cui ricadono nel divieto tutte quelle modifiche che costituiscono un peggioramento del decoro architettonico del fabbricato (Cass. civ., sez. II, 03/01/2014, n. 53).
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La disciplina sopra detta può subire una variazione qualora una clausola di natura contrattuale del regolamento (accettata da tutti i condomini nel rogito) imponga ai condomini di richiedere l’autorizzazione all’assemblea o all’amministratore prima di operare modifiche alle parti comuni. La questione è stata affrontata da una recente decisione della Cassazione (sentenza 28 dicembre 2022 n. 37852).
La vicenda
In un condominio complesso l’assemblea aveva deliberato “di autorizzare i condomini (…) ad effettuare un incremento, secondo le normative vigenti rapportato al volume individuale, che nelle villette centrali si realizza chiudendo i portici frontali, mentre per le villette di testata l’incremento si può realizzare anche lateralmente, previa visione in assemblea dei progetti da presentare in Comune che verranno accettati in ultima istanza dall’assemblea”.
Trovandosi in quest’ultimo caso (titolare di una villetta di testa), un condomino chiedeva alla collettività condominiale di ampliare la sua unità immobiliare. L’assemblea, però, negava il consenso alla realizzazione delle opere. Il condomino allora impugnava la delibera (che riteneva contraddittoria rispetto alla precedente delibera e viziata da eccesso di potere). Il Tribunale dava ragione all’attore e lo stesso faceva la Corte di Appello. In particolare i giudici di secondo grado non ritenevano che le opere richieste dall’attore fossero ostacolate dalla seguente clausola di natura contrattuale del regolamento: “i condomini si obbligano reciprocamente richiedere il parere vincolante della assemblea per i lavori da svolgere nelle parti private che riguardano la facciata dell’edificio e le parti esterne che concorrono all’estetica ed al decoro dell’intero immobile”. Per la Corte di Appello tale disposizione non imponeva alcun limite ulteriore rispetto al dettato dell’art. 1122 c.c., né imponeva il divieto di eseguire sulle parti private una qualsiasi opera modificativa, ma imponeva solo un onere di informativa preventiva degli interventi all’assemblea.
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La decisione della Cassazione
La Cassazione ha dato torto al condomino. Secondo la Suprema Corte i giudici di secondo grado non hanno interpretato correttamente la clausola sopra detta del regolamento. Del resto qualora il testo della pattuizione del regolamento, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti (cioè dei condomini) e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile.
Come ha notato la Cassazione il regolamento ha subordinato l’esecuzione di opere del singolo condominio che incidono sulla facciata o comunque sull’aspetto esteriore del fabbricato, e quindi sul suo decoro architettonico, al “parere vincolante della assemblea”, parere che dunque obbliga ciascuno condomino, oltre che alla relativa richiesta, a uniformarsi al suo contenuto. Di conseguenza, ad avviso della Suprema Corte, attraverso la delibera che ha negato il consenso alle opere dell’attore, l’assemblea ha esercitato la prerogativa, attribuitale dalla convenzione adottata in sede di regolamento, di esprimere il consenso alle opere eseguite dai singoli condomini riguardanti la facciata e le superfici esterne, a salvaguardia del decoro architettonico.
Articolo di Giuseppe Bordolli, consulente legale condominialista
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Immagine: iStock/Deagreez
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