Con la sentenza della Corte di Giustizia Europa, Sez. VI, 15 ottobre 2014, l’Italia è stata condannata per non aver adempiuto ai seguenti obblighi dettati dalle norme comunitarie sui rifiuti:
– Implementare un procedimento per il trattamento dei rifiuti[1] avviati in discarica (in particolare, per quanto riguarda l’interramento e la stabilizzazione della frazione organica di tali rifiuti) che sia adatto a ridurre il più possibile le ripercussioni negative dei rifiuti sull’ambiente e, pertanto, sulla salute umana (anche come rischio) durante l’intero ciclo di vita della discarica (cfr. punto 32) ex art.1 direttiva 1999/31, artt. 1, 4 e 13 della direttiva 2008/98 (punto 22)[2]. Infatti, nel punto 14 della sentenza si afferma che “il trattamento ai sensi della direttiva 1999/31 deve avere l’effetto di evitare o ridurre il più possibile le ripercussioni negative sull’ambiente nonché i rischi per la salute. Pertanto, la mera triturazione e/o compressione dei rifiuti indifferenziati, che non includa un’adeguata selezione delle diverse frazioni dei rifiuti nonché una qualche forma di stabilizzazione delle stesse frazioni, non risponderebbe agli obiettivi menzionati (..)”.
– Creare, specificatamente nella Regione Lazio, una rete integrata ed adeguata di impianti di gestione dei rifiuti, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili. Sempre al punto 14 della sentenza viene ricordato che la Commissione aveva “contestato alla Repubblica italiana di aver violato l’articolo 16 della direttiva 2008/98 in ragione del deficit di capacità di trattamento meccanico-biologico (…il «TMB») che risulterebbe dal piano regionale di gestione dei rifiuti”.
In particolare, la Corte ha ritenuto che la Repubblica Italiana non abbia adempiuto alle seguenti norme:
– Articoli 1, paragrafo 1, e 6, lettera a), della direttiva 1999/31/CE del Consiglio, del 26 aprile 1999, relativa alle discariche di rifiuti nonché degli articoli 4 e 13 della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive (punto 45).
– Articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/98 (punto 52).
La sentenza è strutturata secondo i seguenti punti.
– 1. Richiesta della Commissione alla Corte di condanna dell’Italia;
– 2-11. Analisi della Corte circa il quadro normativo applicabile;
– 12-20. Riepilogo degli scambi di corrispondenza tra Italia e Commissione precedentemente all’avvio del procedimento giudiziale;
– 21-28. Argomenti delle parti in relazione alla mancata attuazione di un trattamento atto il più possibile a ridurre le ripercussioni negative dei rifiuti sull’ambiente;
– 29-45. Opinione e decisione della Corte sul punto di cui sopra;
– 45-49. Argomenti delle parti in relazione alla mancata creazione di una rete integrata ed adeguata di impianti di gestione dei rifiuti;
– 50-52. Opinione e decisione della Corte sul punto di cui sopra;
– 53. Parte dispositiva di condanna.
La condanna, come previsto dalla legge, non impone un termine all’Italia per adempiere. Tuttavia, in caso l’Italia non rimedi al mancato adempimento, la Commissione può avviare un nuovo procedimento atto a constatare la persistente violazione dei predetti obblighi, procedimento che, in caso di ulteriore condanna, questa volta potrebbe comportare l’emissione di sanzioni pecuniarie nei confronti dell’Italia.
Occorre partire da quanto viene additato (seppur come difesa Italiana) nel punto 24 della sentenza: “(…) la Commissione (…) sapeva che, per la Repubblica italiana, il compattamento e la triturazione dei rifiuti costituivano un trattamento adeguato”.
Quel che ci si attendeva dalla sentenza era un chiarimento della posizione europea sulle operazioni di trattamento che però nella pronuncia rimangono un po’…. astratte, seppure vengano chiarite nella loro finalità e nel limite “negativo” – che è l’altra faccia dell’obiettivo – di assicurare e/o garantire la riduzione dei rischi per la salute dell’uomo e dell’ambiente.
In Italia, da diversi lustri, le discariche sono generalmente state molto attenzionate sul loro funzionamento, soprattutto quelle gestite dai privati, anche se non sono mancati non pochi episodi di mala gestione[3].
In particolare, talune realtà laziali continuavano ad abbancare (fino a non molto tempo fa) i rifiuti tal quali in lotti peraltro già esauriti, poi riaperti dopo un periodo di stabilizzazione, onde riportarli alle quote iniziali della discarica (il tutto autorizzato dalla regione). Nel frattempo si utilizzava, a fasi alterne, un gassificatore (tra altro attivando una sola linea su tre presenti), alimentato anche da combustibile per raggiungere le temperature desiderate di funzionamento (ottenendo peraltro incentivi).
Per quanto riguarda il trattamento, la Corte ha in larga parte condiviso le critiche della Commissione relative al “trattamento” messo in atto presso sette discariche localizzate nel SubATO di Roma e Latina (indicate al punto 27 della Sentenza), consistente (i) nella mera compressione e/o triturazione (ii) di rifiuti indifferenziati destinati a discarica (iii) senza che sia inclusa un’adeguata selezione delle diverse frazioni e una qualche forma di stabilizzazione.
In accoglimento delle domande della Commissione, la Corte ha precisato che un siffatto “trattamento” non è sufficiente a soddisfare l’obbligo imposto dall’articolo 13, Direttiva 2008/98 agli Stati Membri di adottare le misure necessarie affinché la gestione dei rifiuti non comporti pericoli per la salute umana o rechi pregiudizio all’ambiente (punto 37).
Ancor più specificatamente, la Corte ha precisato che ai sensi della predetta norma e degli articoli 2, lettera h), e 6, lettera a), Direttiva 1999/31, non costituisce adeguato “trattamento” la collocazione dei rifiuti “tali e quali” in discarica (punto 31), come invece il Ministero dell’Ambiente aveva espressamente autorizzato la Regione Lazio a fare (cfr. punto 13).
La Corte non indica però quali trattamenti dovrebbero essere concretamente adottati dall’Italia per conformarsi alle norme predette, in quanto, come noto, le Direttive, per loro natura consentono agli Stati Membri di scegliere la forma e ai mezzi per ottenere gli obiettivi prefissi.
Tuttavia, la richiesta iniziale della Commissione all’Italia in fase pre-contenziosa (richiesta che potrebbe essere considerata una utile indicazione in merito a ciò che dovrebbe implementare l’Italia al fine per conformarsi alla normativa in discorso) si sosteneva (vedi punto 21) “che, per essere conforme alle direttive 1999/31 e 2008/98, il trattamento dei rifiuti destinati alle discariche, oltre a modificare le caratteristiche dei rifiuti allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa e di facilitarne il trasporto o il recupero, deve altresì avere l’effetto di evitare o ridurre il più possibile i rischi per la salute umana e le ripercussioni negative sull’ambiente. Pertanto, nella misura in cui esiste un trattamento che permette di raggiungere un miglior risultato complessivo per la protezione della salute umana e dell’ambiente, in particolare permettendo una stabilizzazione delle frazioni organiche dei rifiuti, gli Stati membri sarebbero tenuti ad adottare tale trattamento” (sottolineato nostro).
Come sanno tutti gli operatori esperti, il grande problema dei rifiuti smaltiti in discarica sono gli espedienti con i quali si avviano rifiuti che presentano una sostanza organica elevata[4].
Tra le prescrizioni del D.Lgs. n. 36/2003 (attuativo della direttiva discarica 1999/31/CE) segnaliamo:
1. il principio di riduzione dei rifiuti in discarica, di cui all’articolo 5;
2. l’articolo 7 che prevede che i rifiuti possano essere collocati in discarica solo dopo pretrattamento;
3. il punto 2.3, dell’allegato 1, che prevede che il percolato e le acque raccolte debbano essere trattare in impianto tecnicamente idoneo al fine di garantirne lo scarico nel rispetto dei limiti previsti dalla normativa vigente;
4. l’articolo 6, punto 1, che vieta l’immissione in discarica di rifiuti allo stato liquido.
Per esempio sovente si ricorre al “trucco” del CER 191212[5], col quale si evita (salvo quanto previsto in autorizzazione di impianto) di dover rispettare i parametri (limiti) del DOC (Carbonio organico disciolto)[6], talchè una presenza in discarica di rifiuti con elevata sostanza organica rischia di causare problemi di percolato, ma pure cedimenti strutturali (poiché aumenta l’ossigeno), nonché un aumento nella produzione di gas serra (Co2 e CH4), con problematiche non irrilevanti se la discarica è di dimensioni non piccole.
Ecco l’importanza fondamentale di capire e chiarire l’operazione del “trattamento” ai fini di cui trattasi, considerato che la mera triturazione e riduzione volumetrica non è certo idonea a far “cambiare” i rifiuti e garantire gli obiettivi che richiede la direttiva discariche. Ancora, con un CER 191212 derivante da rifiuti non selezionati a monte o non provenienti da un processo di raccolta differenziata vero e proprio comporta obiettivamente il rischio di produrre percolato con le conseguenze dianzi cennate.
Anzi, potremmo dire (provocatoriamente) che la riduzione volumetrica, in certi casi, serve solo per sminuzzare finemente il rifiuto e facendo perdere “traccia” di quali sono le frazioni merceologiche di cui è realmente costituito il rifiuto, tra cui anche la parte organica, a tacer d’altro!
Conclusivamente, a nostro parere la sentenza è decisamente da condividersi in quanto la stabilizzazione della frazione organica assieme alla separazione di altre frazioni merceologiche per avviarle a circuiti di recupero/smaltimento, sono forme di trattamento che garantiscono l’obiettivo di ridurre i rischi per la salute dell’uomo e dell’ambiente.
Resta poi ferma, sia chiaro, la possibilità di adottare altre forme di trattamento che perseguano lo stesso obiettivo. Il fatto che il sistema pubblico non si sia ancora attivato – come era suo onere – realizzando una rete impiantistica così congeniata (lasciamo poi stare la scelta di fondo, spesso ideologica, compendiata con: discariche o non discariche? termovalorizzatori si o no? Raccolta differenziata con riciclo/recupero e rifiuti zero? Etc.), diventa senz’altro (ancor più visto considerando che la direttiva “discariche” risale al 1999, al di là del periodo transitorio ivi previsto) un motivo di censura (e di responsabilizzazione)[7].
Ancora una volta mancano le strategie a medio lungo periodo e il coraggio (la forza) di avviare questo nuovo (peraltro dovuto) percorso.
Articolo di Alberto Pierobon, esperto in rifiuti e servizi pubblici locali
[1] L’articolo 2, lettera h), della direttiva 1999/31 definisce il «trattamento» dei rifiuti come «i processi fisici, termici, chimici, o biologici, inclusa la cernita, che modificano le caratteristiche dei rifiuti allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa e di facilitarne il trasporto o favorirne il recupero».
[2] Sempre al punto 22, la Commissione ricorda “la sua sentenza Commissione /Italia (C-297/08, EU:C:2010:115), la Corte ha dichiarato che la con stazione della violazione di tale articolo, relativamente ad operazioni di recupero e smaltimento dei rifiuti, non può essere subordinata all’effettiva esistenza di problemi sanitari”.
[3] Per esempio (di come i “giochi” oramai siano societari, contrattuali e della cosiddetta finanziarizzazione ambientale) ne “Il Messaggero.it” del 16 ottobre 2014 leggiamo: “Latina, sei arresti per i rifiuti: i 30 milioni spariti e il ruolo di due società lussemburghesi. L’inchiesta di Squadra Mobile, Sco e Procura di Latina è un vero e proprio terremoto non solo nel capoluogo pontino ma soprattutto nel mondo della finanza milanese (…). Nell’indagine pontina è emerso che i fondi destinati al risanamento “post mortem” della discarica, circa 30 milioni di euro, sono – secondo gli inquirenti – spariti in un complesso giro di operazioni finanziarie tra società. Tra le società interessate dall’indagine spuntano anche du s.a. ovvero società anonime con sede in Lussemburgo, la Adami e la Double Green, controllano il gruppo Green Holding”.
[4] Di qui anche l’iniziativa (da una decina di anni) delle discariche cosiddette “bioreattore”, che consentono, a certe condizioni stabilite dall’autorità competente in sede di autorizzazione, di accogliere rifiuti non pericolosi a matrice organica , potendosi prevedere deroghe per specifici parametri, quali DOC, TOC e TDS. Dal punto di vista tecnico, il bioreattore consente di accelerare, i processi di degradazione biologica che avvengono nel corpo della discarica e questo può avvenire in condizioni di anaerobiosi (creando le condizioni ideali di umidità (almeno 40%) o in condizioni di aerobiosi (insufflando aria). Tali tecnologie generano vantaggi dal punto di vista ambientale, in particolare attraverso la degradazione accelerata si riducono i costi legati al periodo di monitoraggio e controllo nella fase post operativa, si rende, altresì, possibile la disponibilità di ulteriori volumi utili a causa del più accelerato assestamento della massa dei rifiuti.
[5] Sia permesso rinviare a nostri scritti, in Gazzetta Enti locali, titolati: “Selezione (trattamento meccanico) e gestione dei rifiuti. Andiamo alla sostanza!”; “Spunti critici sulle qualificazioni e classificazioni dei rifiuti nella sentenza del Consiglio di Stato, V, n.5566 dep. Il 31/10/2012” e a quanto disaminato, nella parte rifiuti, nel volume collettaneo “Nuovo Manuale di diritto e gestione dei rifiuti”, Santarcangelo di Romagna, 2012.
[6] Si veda il D.M. 27 settembre 2010 sull’ammissibilità dei rifiuti in discarica, l’art. 6, tabella 5, nota (*). Qui il limite del DOC è 100 mg/l, ma per la nota (*) “Il limite di concentrazione per il parametro DOC non si applica alle seguenti tipologie di rifiuti”, tra le quali, la lettera “f” precisa i “rifiuti derivanti dal trattamento meccanico (ad esempio selezione) individuati dai codici 191210 e 191212 e dal trattamento biologico, individuati dal codice 190501”.
[7] Come peraltro già avvenuto con riferimento alla Regione Campania.
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