A seguito dell’entrata in vigore del tanto atteso d.m. 161/2012 (rubricato Regolamento recante la disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo) che ha abrogato l’art. 186, d.lgs. 152/2006 (c.d. Testo Unico Ambiente) che dettava in precedenza la disciplina sulla gestione dei materiali da scavo, sono fiorite tesi ed interpretazioni, a livello sinora principalmente dottrinario, in ordine agli aspetti applicativi della nuova disciplina.
In particolare, una certa attenzione è stata riposta sull’ambito di applicazione delle nuove regole, atteso il fatto che si tratta di una disciplina derogatoria. Infatti, ora come in passato, la “forza” delle terre e rocce da scavo sta nel fatto che alcuni materiali, quando possono essere definiti tali, godono di una particolare e semplificata forma di gestione e di trattamento, la quale esula dal novero (e dalla disciplina rigorosa) dei rifiuti, con tutti i benefici del caso.
È per questo che la dottrina si è interrogata sui limiti della disciplina derogatoria, preoccupata di evitare pericolose ed arbitrarie estensioni di una regolamentazione di favore a materiali che non meritano – perché non ne hanno le caratteristiche ambientali e di sicurezza – un simile, privilegiato trattamento. O, più semplicemente, perché non possono considerarsi dei “sottoprodotti” dell’attività di scavo, che è una fondamentale connotazione delle terre e rocce da scavo.
Ad esempio, autorevole dottrina (M. Santoloci/V. Vattani) sostiene che la nuova disciplina si applicherebbe solo ai lavori pubblici e non anche a quelli di edilizia privata.
Tale linea interpretativa poggia su di un elemento formale, anzi letterale, basandosi sul fatto che il decreto si riferisce ai materiali da scavo derivanti dai lavori necessari a realizzare alcune opere, per l’individuazione delle quali lo stesso decreto richiama le corrispondenti definizione contenute nell’art. 3, comma 8, d.lgs. 163/2006, cioè il c.d. Codice dei Contratti pubblici, il quale, appunto, reca la (sola) disciplina dei lavori per le opere pubbliche e di pubblico interesse, non disciplinando anche i lavori privati.
Una simile ipotesi ricostruttiva avrebbe un peso non indifferente a livello operativo perché, considerando che il nuovo d.m. sostituisce l’art. 186, Testo Unico Ambiente, in questo modo vi sarebbe, oggi, una importante limitazione applicativa che prima non c’era, atteso il carattere alquanto generale della norma abrogata.
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