“Progettare nel tempo” è il convegno che si terrà a Milano il 9 ottobre 2015 presso il Palazzo delle Stelline. Si tratta di un’indagine del rapporto tra temporalità e architettura, una ricerca del legame concreto tra mondo del lavoro e professione della progettazione, legame che si nutre di teoria e di pratica. Ho intervistato il Direttore scientifico del convegno, Fabrizio Arrigoni, Professore Associato di Composizione Architettonica e Urbana presso il DIDA Dipartimento di Architettura all’Università di Firenze, e le sue parole sono la sintesi perfetta dell’approccio a queste tematiche così come verranno affrontate a “Progettare nel tempo”. In tre parole: cultura architettonica, progetto e lavoro.
1) Il convegno “Progettare nel tempo” è un’indagine che si muove tra universo della costruzione e temporalità. In sostanza, si parte dall’idea che ogni architettura felicemente riuscita sia una silenziosa macchina del tempo. Cosa s’intende con “silenziosa macchina del tempo”?
L’architettura è congegno temporale secondo due direzioni. Una prima fa cenno a quell’insieme di conoscenze ed espressività, bisogni e desideri che hanno dato origine alla costruzione e che essa – nel suo trascorrere – consegna ed affida alle generazioni successive. L’architettura è, nella generalità dei casi, destinata all’anacronismo ed alla sopravvivenza tenace e dunque a un meccanismo di condensazione dei portati disciplinari e culturali – in guisa di un palinsesto che nel suo lento stratificarsi acquista senso e densità concettuale – in ciò la “breve eternità delle opere d’arte”. Vorrei suggerire anche l’enigmaticità inerente a tale processo di emancipazione dai vincoli storici, o di epoca, che hanno prodotto l’opera e che sovente viene del tutto non interrogata a favore di una ermeneutica eccessivamente positiva quando nonschiettamente ingenua.
Ma tempo – e siamo in un altro sentiero – è anche il succedersi delle stagioni, del sorgere e del tramontare del sole, delle piogge e dei venti, dei baluginii notturni e delle albe nebbiose, dello scorrere delle nuvole e dello sbiancarsi della terra sotto le nevi: l’universo cangiante e molteplice dell’esistenza empirica che la fabbrica, quieta, subisce e registra sul suo soma. Qualsivoglia edificio è corpo segnato da lacune e riprese, perdite e sostituzioni, patinature ed ombre fugaci: le tracce e le eterogeneità dovute agli infiniti urti dell’essere-nel-mondo. Scoprire e farsi carico di un’attitudine, di una inclinazione partecipe del concretissimum fenomenico è forse la prima strategia per chi non accetta l’iconolatria dominante.
2) Fine concreto è proporre uno spazio di dialogo tra le discipline del progetto e il mondo del lavoro. Da questo punto di vista, in particolare m’interessa la visione del progetto di architettura come riforma dell’esistente. Proprio per il fatto che questa visione unisce l’attualità di un tema che dà lavoro alle imprese e ai progettisti (quello della riqualificazione dell’esistente) e l’idea progettuale del rinnovamento dei codici linguistici, mi sembra attuale e affascinante al tempo stesso. Quali riflessioni si sente di fare a cavallo tra realizzazione concreta di un progetto di riqualificazione e idea della riqualificazione come modo di riportare in vita il passato?
Pensiamo all’Anastasis nella città vecchia di Gerusalemme dove il Martyrium è innestato su un precedente volume basilicale: una scrittura liturgica e compositiva che attraverso numerosissime sperimentazioni ha scosso la tipologia dell’edificio di culto cristiano diviso tra il tema dell’aula longitudinale – la via, il mettersi in cammino – e quello della pianta centrale – l’arresto, lo stare. E questo assecondando e piegandosi agli impedimenti del vicino contesto, un costrutto di più antiche muraglie, giaciture, assetti urbani. Per un lungo arco temporale l’architettura è stata pratica in grado di crescere su sé medesima, metamorfizzando e riconnettendo incessantemente i frantumi che il passato tramandava; un’autocombustione che combinava reciprocamente idee, metodologie, tecniche, materie, riconsegnandole in nuovi orditi, inedite successioni che facevano del vigente un’opportunità per l’invenzione. Una trama tessuta di continuità e strappi, ripetizioni ed effrazioni, conservazioni e distruzioni, senza alcuna preoccupazione storicista, ovvero senza alcuna finalità di salvaguardia e riconoscibilità di un determinato campo di forme e motivi.
Avvertire la diacronia del fatto architettonico non comporta alcuna ipotesi di resurrezione/restaurazione – o Kontinuum der Geschichte; piuttosto si tratta di sondare le potenzialità di vita ulteriore latenti in ciò che è stato, il loro offrirsi quale riserva disponibile per l’adesso o detto con Walter Benjamin «eine mit Jetztzeit geladene Vergangenheit».
A proposito di dialogo tra professione e lavoro, leggi anche L’Efficienza energetica non è la cosa più importante: intervista a Sasso di INBAR.
3) Qual è l’idea di “appropriato” che si delinea nel suo convegno?
Appropriato è il disegno le cui linee sono fondate sul confronto con le peculiarità circoscritte dei siti che accoglieranno la costruzione – clima, orografia, vegetazione, esposizione: una concordanza, hic et nunc, già sottolineata dai latini con la nozione di statio – al pari delle necessità funzionali e d’uso che essa è chiamata a soddisfare.
Ma appropriato può valere anche per la consapevolezza di riferirsi ad attese e memorie collettive, secondo una deriva che indebolisce l’insularità del gesto artistico per esporlo con radicale sollecitudine alla sua dimensione sociale e politica. Appare lecito raccogliere questa costellazione semantica sotto la formula dell’essere-in-rapporto, una dicitura che testimonia il transito dall’oggetto specifico alla relazione specifica; nei casi citati, infatti, è immediato rilevare come essi valutino l’immaginazionetrasformatrice non cadere in uno spazio cartesiano vuoto e/o omogeneo ma all’interno di luoghi circostanziati, territori fitti di caratteri originali, vestigia, rammemorazioni.
Desidero tuttavia ricordare un’accezione meno diffusa che compare in un breve saggio di Vittorio Magnago Lampugnani, Modernità e durata, che giudico di vivo interesse. In quel testo l’appropriatezza diviene categoria riferibile al progetto quando accostato al mestiere; è del mestiere, infatti, il prendere forza nel tempo attraverso la salvaguardia delle prove riuscite e l’abbandono delle mosse rivelatesi fallaci. Mestiere non è il cattivo romanticismo dell’”elogio del grembiule” ma esercizio che si svolge e si rigenera per parziali slittamenti, graduali perfezionamenti, aggiustamenti continui – qui vale il parallelo con l’adagio natura non facit saltus. Una modalità evolutiva, una strategia della variazione dettata da precauzione e ponderatezza del tutto assente nelle vulgate dell’azzardo ostentato che tanta parte occupano nell’inconscio architettonico contemporaneo. L’adeguato in questo ordine del discorso coincide con l’«innovazione sottile», tanto efficace quanto non esibita, implicita.
4) In un contesto di crisi, i progettisti cercano sempre più cose concrete: lavoro. E il tempo è sempre poco. Il suo convegno non rischia di avere un approccio troppo teorico e proprio per questo di allontanare gli architetti?
Nella faglia tra fabrica et ratiocinatione si apre l’intervallo predisposto all’azione dell’architekton/magister – almeno nella nostra tradizione sin dai giorni di Erodoto. Le stesse fatiche vitruviane sono scaturite dalla volontà di porre l’attività dell’artifex quale ars liberalis tra altre. Insistere sulla figura della soglia significa cogliere le connessioni, i montaggi, i rimandi sussistenti tra teoria e prassi insediandosi in un paradigma capace di non separare il momento della riflessione da quello dell’operatività – a tal proposito Franco Purini ha di recente introdotto la nozione di “idea strumento”, un’entità ibrida, sospesa tra “la sostanza oggettiva di un procedimento descrivibile e la disponibilità a un’interpretazione soggettiva delle operazioni compositive e dei loro contenuti”.
Certamente nel nostro lavoro anche gli statuti teorici debbono essere compresi quali materiali, tra i molti disponibili, orientati all’evento costruttivo, ma ristabilirne il ruolo e l’energia equivale a restaurare, più che una stabile precettistica o una normatività invulnerabile, l’opportuna “distanza critica” rispetto alla condizione presente. Non posso dire quanto questa impostazione sia condivisa, tuttavia a lungo le “regole” sono state intese primariamente come potenziale, forza poietica e del tutto immerse nell’atto esecutivo; con un programma meno ambizioso potremmo tornare alle ragioni della teoria per una vivida educazione allo sguardo, premessa di più penetranti ed indocili osservazioni/ricognizioni – teoria da theoréin: théa, vista oráo, vedere.
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