Le grandi scosse dei devastanti terremoti che hanno colpito l’Italia negli ultimi dieci anni (L’Aquila 2009, Emilia 2012, Centro Italia 2016) hanno fatto registrare accelerazioni molto alte, che parte della critica scientifica ha voluto confrontare con quelle contenute negli spettri di progetto, calcolati col metodo probabilistico secondo le Norme Tecniche per le Costruzioni NTC08 (in vigore all’epoca). Di fatto mettendo sotto accusa una eventuale sottostima dei valori di accelerazione forniti dall’attuale mappa di pericolosità sismica italiana, che sono utilizzati per la progettazione della sicurezza sismica degli edifici.
Molti autorevoli autori hanno scritto a riguardo [1-4], dimostrando che solo in limitati casi è avvenuto questo superamento, giudicandolo del tutto ininfluente sulle cause dei crolli, ad incominciare dal fatto «[…] che la maggior parte degli edifici crollati per causa dei terremoti era stata costruita prima dell’entrata in vigore della normativa (NTC08, entrata in vigore nel giugno 2009), quindi con riferimento ad altre azioni sismiche e soprattutto ad altra norma costruttiva.» [4]. Inoltre «[…] scuotimenti del suolo superiori a quelli previsti dalla mappa sono ammessi dalla medesima stima probabilistica della pericolosità e, più in generale, dalla filosofia delle Norme Tecniche per le Costruzioni […]» [3].
Soprattutto per siti vicini all’epicentro in corrispondenza di evento piuttosto raro, che però non fornisce elementi per mettere in discussione le mappe di pericolosità. II superamento dell’accelerazione di progetto in zona epicentrale non pregiudica di per sé il collasso della struttura. Prova ne sono molti edifici esistenti che, progettati anche con norme più obsolete rispetto a quelle attuali, hanno resistito alle accelerazioni superiori a quelle di progetto. Spesso il superamento è avvenuto solo in una porzione limitata dello spettro, riguardante il periodo di vibrazione solamente di alcuni edifici, per cui il problema dell’eventuale superamento interesserebbe una limitata categoria di strutture, e solo in limitati casi.
Di recente un articolo pubblicato su L’Espresso [5] ha affrontato nuovamente questa discussione giudicando sbagliato continuare a progettare col modello probabilistico, reso obbligatorio dalle NTC08, ed auspicando di progettare mediante accelerazioni con probabilità di superamento più basse dell’attuale 10% in 50 anni proposto dalla mappa sismica, ossia di progettare col valore massimo deterministico.
Ad avallare la tesi viene riportato negativamente il caso di Norcia, in cui molti edifici danneggiati erano già stati consolidati dopo il terremoto Umbria-Marche del 1997; secondo l’autore, progettati tenendo conto delle accelerazioni dettate dal metodo probabilistico sotto accusa. Confermandone pertanto l’insuccesso.
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Un po’ di chiarezza
Proviamo a fare chiarezza sulle reali cause che hanno contribuito al crollo di molti edifici durante gli ultimi grandi terremoti, affinché si esca definitivamente da inutili discussioni per concentrarsi invece sul gran lavoro tecnico ancora da fare per la messa in sicurezza del patrimonio edilizio esistente. Perché le principali vulnerabilità sismiche non vanno ricercate nella normativa? Sicuramente è migliorabile come tutte le cose ma di fatto oggi efficace strumento, derivante dagli Eurocodici, riconosciuto dal mondo scientifico internazionale per garantire una progettazione della sicurezza, bensì in più gravi mancanze croniche che caratterizzano il nostro costruito esistente. Il quale ha prima di tutto necessità di una cosa soltanto: essere sottoposto ad interventi di prevenzione, partendo da svolgere verifiche sismiche del costruito esistente proprio ai sensi delle medesime Norme Tecniche per le Costruzioni.
Perché la vera causa dei crolli deriva prima di tutto dalla quasi assoluta mancanza di adeguamento sismico (o miglioramento nel caso del patrimonio monumentale) dell’edilizia esistente, lasciando irrisolta una serie infinita di vulnerabilità pericolose: pareti non legate tra di loro, scarse resistenze meccaniche dovute al degrado e alle qualità costruttive, interventi pesanti di sopraelevazione o ampliamento progettati senza riguardo alle possibili interazioni dinamiche che hanno stravolto la geometria e gli equilibri strutturali, demolizioni parziali di elementi portanti, aperture eseguite senza valutazione dell’indebolimento murario, ecc…
Se il problema della discussione è la scelta dell’intervallo e della probabilità di superamento adottati dalla normativa quali requisiti minimi per la salvaguardia delle vite umane in caso di sisma (il 10% in 50 anni, ossia con periodo di ritorno 475 anni), occorre sottolineare che «[…] questa scelta la fa lo Stato (parliamo di normativa, appunto), sulla base di una consuetudine abbastanza condivisa a livello internazionale.» [4].
Alle strutture vengono richieste diverse prestazioni in funzione del periodo di ritorno e dell’importanza strategica. Con terremoti con alto periodo di ritorno, ossia quelli più catastrofici, non è conveniente, a livello economico, progettare la struttura in modo da evitare danni, ossia che resti in un campo elastico. Con questa filosofia, in riferimento a terremoti con periodo di ritorno alto, l’edificio svolge la funzione di cellula di sicurezza, tuttavia danneggiandosi in modo (anche) grave sfruttando la duttilità della struttura.
Ricordiamo che ad oggi, in concomitanza con gli ultimi grandi terremoti, nessun nuovo edificio progettato con il metodo probabilistico e con le attuali mappe sismiche è crollato per una sottostima delle accelerazioni. Piuttosto, sono crollati tanti edifici con scarse qualità murarie, con inefficienti, se non completamente assenti, presidi antisismici.
Alcuni studiosi propongono di alzare il livello dell’asticella della sicurezza, richiedendo di rivedere ancora più al ribasso il calcolo della probabilità di eccedenza, e di riferirsi di fatto al massimo sisma valutato con metodo deterministico, con l’obiettivo di limitare i danni socio-economici delle (lunghe) fasi di inagibilità e ricostruzione. Si ricorda tuttavia che ciò è già possibile oggi, poiché l’attuale norma tecnica permette volontariamente di progettare con azioni sismiche superiori a quelle minime. La scelta è dettata solo da valutazioni di tipo economico da parte della committenza.
Ricordiamo altresì che la nuova mappa di pericolosità sismica è uscita nel 2003 in cui classificava tutto il territorio nazionale a rischio simico, di fatto facendo un primo passo avanti rispetto alle precedenti mappe che contenevano molte zone a rischio sismico nullo nelle quali la progettazione era solo su verifiche di tipo statico. Tuttavia il risultato di fronte al più severo dei collaudatori, ossia il terremoto, è variegato. Poiché abbiamo molti esempi di edifici costruiti o ristrutturati nel passato con una buona regola dell’arte, che non sono collassati, mentre altri costruiti male o mal ristrutturati hanno evidenziato crolli o danni gravi. Quello che conta in campo sismico sono prima di tutto la buona regola dell’arte, le connessioni, il comportamento perfettamente scatolare, le resistenze dei materiali, i dettagli delle armature. Insomma il costruire bene (fig.1).
Se proprio vogliamo mettere sotto accusa una normativa, sarebbe più utile riflettere sugli innumerevoli scempi generati dalle tante linee guida tecniche di adeguamento sismico degli anni ’80 che hanno suggerito la demolizione di solai e tetti in legno a favore di diaframmi in c.a. molto più pesanti, inserendo cordoli in breccia non collegati alle murature sottostanti. La maggior parte di questi edifici “adeguati” sismicamente è poi rovinosamente crollata o gravemente danneggiata ai successivi terremoti, dimostrando quanto debba essere più attento, più approfondito, più leggero e meno invasivo ogni intervento di miglioramento sismico sul costruito esistente, senza dover necessariamente modificare l’originario schema strutturale.
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Crolli e vulnerabilità sismica. Cosa è realmente accaduto a Norcia?
A seguito del terremoto del 2016 è stato interessante valutare l’efficacia di molti interventi di consolidamento già eseguiti nella medesima area epicentrale dopo gli eventi sismici del 1979 e 1997 [5, 6]. In particolare la ricostruzione post sisma 1997 Umbria-Marche è stata riconosciuta, a livello tecnico-scientifico, tra le più evolute, rivedendo in chiave critica gli errori dei precedenti interventi pesanti ed invasivi in c.a. e indirizzando gli interventi verso soluzioni meno invasive riprendendo in chiave moderna le tradizionali tecniche costruttive.
È giusto dire che nel territorio umbro-marchigiano alcuni edifici oggetto di riparazione post 1997 hanno manifestato eccellenti risultati, mentre altri hanno rilevato parziali crolli. Come in tutte le cose, se fatte bene permettono di raggiungere buoni risultati. Per gli altri, ci sono stati alcuni errori dovuti ad interventi locali senza una completa valutazione della risposta dinamica dell’intero edificio (fig.2).
Molti i casi di interventi corretti negli ancoraggi, come per esempio l’inserimento di inghisaggi verticali nei cordoli, ma inefficaci se applicati su murature la cui scarsa qualità e omogeneità non era stata prima migliorata. Tutti interventi di riparazione progettati comunque con norme tecniche e linee guida precedenti all’entrata in vigore della nuova mappa sismica (2003) e dell’obbligatorietà del calcolo agli stati limite delle NTC 2008.
Norcia invece possiede già una tradizione di prevenzione sismica centenaria, risalente al regolamento edilizio del 1860, che di fatto ha caratterizzato la sua tecnica edilizia fatta di speroni di contrasto, edifici limitati in altezza, maggiore attenzione nel dimensionamento delle murature e nelle “legature” delle travi sul corpo di fabbrica, fino ad arrivare alla ricostruzione post 1997 (figura 3). Vale la pena leggere le disposizioni di questo regolamento edilizio del 1860, l’attenzione per i dettagli esecutivi imposti, il controllo esercitato da un ingegnere capo nominato nella commissione edilizia preposta alla validazione dei progetti. Un documento che attesta una profonda capacità critica di interpretare gli errori del passato e progettare una buona cultura del costruito per il futuro. Un’ottima base di partenza che molti altri centri abitati del cratere non avevano.
Oggi a Norcia molti edifici di civile abitazione sono rimasti in piedi, seppur danneggiati, verificando pienamente il requisito minimo di stato limite di salvaguardia della vita, che comporta comunque un danno anche grave alla struttura. La gran parte di queste murature erano state consolidate dopo il 1997 con intonaci armati o iniezioni, favorendo un ritorno verso soluzioni più proprie dell’orginaria tecnica edificatoria, quali per esempio i solai in legno o in putrelle, migliorandone le prestazioni strutturali con nuove tecniche di rinforzo (figura 4).
Non una ricostruzione post sismica per demolizione e sostituzione con protesi in c.a. violentemente inserite all’interno di murature diventate poi ibride, ma per recupero e miglioramento delle originarie tecniche e degli elementi costruttivi pre-moderni, derivanti spesso da quel regolamento edilizio del 1860 che metteva in primo piano la conservazione dei caratteri costruttivi tradizionali migliorandone le prestazioni sismiche con maggior robustezza nel dimensionamento delle volte e delle murature, e attenzione verso tutti i collegamenti tra gli elementi strutturali.
Differente è il discorso per le chiese di Norcia, quasi tutte gravemente danneggiate o addirittura distrutte. Ma poco c’entra il superamento del valore delle accelerazioni sullo spettro di progetto. Il loro collasso o danneggiamento grave deriva prima di tutto da assenza di interventi strutturali (figura 5) oppure da interventi di adeguamento sismico eseguiti nei decenni precedenti con le già descritte errate pratiche dei pesanti ed invasivi elementi in c.a., modificando in modo ibrido l’originario schema strutturale (figura 6). Tutto questo in un contesto, spesso, di scarsa qualità muraria.
Occorre altresì ricordare che i progetti di riparazione e ricostruzione post sisma 1997 si basavano obbligatoriamente su un valore minimo del 65% della sicurezza sismica rispetto alle prescrizioni dei nuovi edifici, così come molte altre leggi inerenti le ricostruzioni sotto finanziamento statale ancora in corso nei successivi crateri sismici (L’Aquila, Emilia, Centro Italia al 60% dell’accelerazione sismica). Quindi, se vogliamo richiamare in causa il valore delle accelerazioni attese al suolo, occorre altresì dire che le ricostruzioni post sisma 1997 sono state progettate per sopportare solo il 65% del suo valore. Tuttavia il risultato non sembra essere stato poi così deludente. Merito soprattutto della buona pratica dei dettagli esecutivi e diffusione di presidi antisismici (quali catene e speroni) insiti in una cultura del costruito che affonda le sue radici da quel regolamento edilizio del 1860, piuttosto che di calcoli probabilistici. Scenario molto diverso rispetto ad Amatrice, Accumuli o Arquata del Tronto, dove la scarsa qualità della tessitura muraria ha contribuito alla completa distruzione dei paesi.
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Riflessioni per il futuro
La messa in sicurezza dell’immenso patrimonio edilizio e storico italiano passa prima di tutto dalla necessità di verificare, adeguare o migliorare la resistenza sismica ai sensi proprio delle nuove Norme Tecniche per le Costruzioni, poiché gran parte del costruito esistente è stato progettato con vecchie norme e spesso possiede carenze di qualità costruttiva, oltre che problemi di vetustà.
Sarebbe già sufficiente contrastare i cinematismi fuori piano con semplici e puntuali interventi (tiranti, cordoli, legature delle pareti) e ricondurre la resistenza sismica ad un comportamento perfettamente scatolare per limitare notevolmente i danni durante una gravosa sequenza sismica, evitando spesso il crollo totale della struttura. Perché l’elevata vulnerabilità del costruito non deriva da carenze dell’attuale normativa tecnica, bensì da quelle del passato e da una cultura del costruire e ristrutturare spesso non così attenta nei confronti del rischio sismico, di cui se ne perde quasi subito il ricordo e la paura.
Immagine di copertina: rovine di Amatrice dopo la lunga sequenza sismica del 2016-2017. Si intravedono tetti pesanti in c.a. crollati su “piedi d’argilla” delle murature di scarsa qualità. In fondo spicca la torre civica medioevale, una delle pochissime strutture storiche rimaste in piedi.
Bibliografia
- [1] Iervolino I., Giorgio M., 2017. E’ possibile evitare il superamento delle azioni di progetto nell’area epicentrale di terremoti forti?, http://wpage.unina.it/iuniervo/papers/Iervolino-Giorgio_2017.pdf
- [2] Crowley H. et al, 2009. Uno sguardo agli spettri delle NTC08 in relazione al terremoto de L’Aquila, https://drive.google.com/file/d/134KHJrfRohBHG37RD6nG0qDTcZdafa4L/view
- [3] Stucchi M. et al., 2012. I terremoti del maggio 2012 e la pericolosità sismica dell’area: che cosa è stato sottostimato? https://drive.google.com/file/d/1yh3R_rg_39cyUYmja-MSTfke-fS8HbLQ/view
- [4] Stucchi M., 2019. La colpa è dei modelli di pericolosità sismica? https://terremotiegrandirischi.com/2019/08/27/la-colpa-e-dei-modelli-di-pericolosita-sismica-di-massimiliano-stucchi/
- [5] Gatti F., 2019. Costruiamo ancora fidandoci di un modello sui terremoti che continua a sbagliare http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/08/26/news/terremoto-calcoli-sbagliati-1.338128
- [6] Grazzini A., 2018. Terremoto del Centro Italia. Riflessioni sulle vulnerabilità del patrimonio architettonico danneggiato. Recupero&Conservazione, 146, 44-51. https://www.recmagazine.it/magazine/146.html
- [7] Grazzini A., 2018. L’adeguamento vulnerabile. Ovvero come sono crollati alcuni dei monumenti già consolidati. Recupero&Conservazione, 145, 35-42. https://www.recmagazine.it/magazine/145.html
Articolo originariamente pubblicato su Ingegneri.cc
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