Dunque eccoci alle soglie di un nuovo condono edilizio, il quarto o, almeno, così pare; ma forse no?
Lo si può chiamare pace edilizia, giubileo amministrativo ma chi è più scaltro la potrebbe chiamare anche una “vera” semplificazione procedimentale, o anche solo una ottimizzazione della legislazione ordinaria vigente. La verità è che non sappiamo bene cosa ci aspetta, di questo fantomatico nuovo condono, ma possiamo provare a costruire uno scenario sulla base delle (poche) informazioni circolate dopo l’annuncio del Ministro Salvini riguardo alle annunciate novità nel merito.
Due sono gli elementi che sembrano essere certi, di questa novità: uno, l’eliminazione del meccanismo della doppia conformità (immaginando che la frase “doppia conforme” presente nel dispaccio ministeriale si riferisca a questo) e l’altro la modifica della percentuale di “tolleranza costruttiva” oggi impostata al 2% dall’art. 34 bis DPR 380/01.
Partendo da questi due punti che appaiono essere fermi, più di altri che pure sono stati ipotizzati, proviamo ad immaginare le possibili altre caratteristiche di questa novità normativa che, va detto, si basa solo sulle voci di corridoio e relativamente alla quale non è circolato nessun testo ufficiale, almeno fino al momento di scrivere la presente.
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Indice
Piano Salva-Casa, da escludersi il condono
Anzitutto, sembra potersi escludere l’ipotesi che si tratti di un vero e proprio nuovo condono: i tre condoni che abbiamo avuto nel passato sono sempre stati gestiti da norme specifiche, avulse dalla normativa strutturale dell’urbanistica, ed hanno avuto sempre regole proprie, anche se inevitabilmente connesse alle regole ordinarie. Soprattutto, i tre condoni hanno avuto delle strette finestre temporali all’interno delle quali inviare le domande: una volta chiusa la finestra, non vi è più possibilità di presentare nuove istanze; si tratta di norme una-tantum e questo aspetto è sempre stato molto controverso, almeno a parere di chi scrive, in quanto crea una concreta disparità tra chi si trova in quel momento per le mani gli strumenti tecnici per poter comprendere l’eventuale presenza di difformità, e chi no.
Nella mia carriera professionale ho incontrato molte persone che si trovavano nella situazione di non aver presentato domanda di condono quando avrebbero potuto, per abusi già in essere e che potevano essere sanati, ma di cui erano semplicemente ignari; un conto difatti è l’abuso “evidente”, come l’aver chiuso a veranda un balcone, mentre altro aspetto sono quelle difformità esecutive messe in atto dall’originario costruttore dell’edificio che sono state semplicemente ignorate, tollerate o sottovalutate dallo stesso autore della costruzione, dai suoi tecnici ma anche dal Comune e che oggi, visti con gli occhi più sottili della normativa vigente, affilata nel tempo dalla giurisprudenza di merito, diventano spesso difficili da gestire in accertamento di conformità (così si chiama la “sanatoria” nel testo unico dell’edilizia).
Sono presenti anche molti casi ibridi in cui è stato presentato un condono per un abuso noto (ad esempio la già citata veranda), ma senza dichiarare altre difformità che affliggevano l’immobile, con l’impossibilità (giustamente) di modificare la domanda in corso d’opera per aggiungere altri elementi, in quanto quello che si è dichiarato al momento della domanda deve rimanere fisso ed immutabile fino al rilascio della concessione.
Ebbene, questo meccanismo dell’”una tantum” tipico dei condoni del passato non sembra essere presente nelle informazioni divulgate dal Ministro e questo è sicuramente un bene: si vede che quella che stanno studiando è una modifica strutturale alle norme edilizie che, quindi, consentiranno di presentare istanze di regolarizzazione senza patemi, nel momento in cui si è pronti per farlo, senza ingolfare gli uffici con istanze presentate tutte lo stesso periodo. Quello dello sgravio del carico degli uffici pubblici, difatti, pare essere uno dei motivi ispiratori di questo provvedimento che, spero presto, scopriremo.
Dalle poche informazioni, sembra anche potersi escludere che questa sanatoria o semplificazione possa dare la possibilità di gestire veri e propri abusi, come ampliamenti o nuove costruzioni realizzate illegittimamente: questa è una buona notizia non solo perché continua a confermare che il provvedimento allo studio non è un vero e proprio condono, ma anche perché ci si è finalmente resi conto che la maggiore difficoltà di oggi nelle compravendite immobiliari sono quelle difformità “minori” che affliggono gli immobili, che non producono impatto sul carico urbanistico, ma che comportano costose e complesse procedure di accertamento che possono far perdere tempo ma che soprattutto possono far saltare affari importanti, comportando alla lunga anche un danno per l’erario che non incassa i proventi delle imposte sulle compravendite ma anche per i comuni che non incassano i diritti e le sanzioni che potrebbero prodursi da procedure di sanatoria più semplici.
Facilitazione nella sanatoria di opere interne eseguite senza titolo
Uno degli aspetti che invece sembra essere inserito nel provvedimento, è quello relativo alla facilitazione nella sanatoria di opere interne eseguite senza titolo: detta così, non appare una innovazione particolarmente incisiva in quanto già oggi sanare una diversa distribuzione interna di un alloggio o di un locale commerciale non è affatto difficile, e, a ben leggere l’art. 6 bis DPR 380/01, già non si trova alcuna traccia della “doppia conformità” nella procedura della CILA “tardiva”; è anche possibile, in questo ambito, fare riferimento ai parametri igienico-sanitari legittimi all’epoca della costruzione del fabbricato (come dispone l’art. 10 comma 2 d.l. 76/2020) sicché in buona sostanza si potrebbe affermare che questo specifico ambito ad oggi non senta la necessità di semplificazione ulteriore. Certo, diversi aspetti potrebbero essere resi più chiari, e questo potrebbe andare a vantaggio di tutti, ma questo lo si vedrà con il testo definitivo.
Si accennava anche alla possibilità di sanare finestre e balconi scomparsi, spostati o difformi rispetto al progetto edilizio: questo in effetti è un tipo di difformità che io stesso riscontro molto spesso nella redazione delle Due Diligence immobiliari soprattutto nell’edilizia di qualche decennio fa e più vecchia, le finestre e i balconi sembravano quasi messi a caso nei progetti, e poi riportati “ad occhio” nella costruzione: è obiettivamente raro trovare un fabbricato costruito nel perfetto ed esatto rispetto del progetto riguardo alle aperture esterne. Detto ciò, ben venga una semplificazione di questo aspetto ma, anche qui, il tipo di sanatoria è comunque ad oggi permesso, anche se siamo ad un gradino di difficoltà leggermente superiore rispetto a quello delle difformità interne: pensiamo difatti all’ambito strutturale.
Finché dobbiamo sanare una finestra spostata su un fabbricato con struttura in calcestruzzo armato, non abbiamo grosse difficoltà in quanto lo spostamento ha interessato elementi non portanti, ovvero la tamponatura in laterizio (sperando che la finestra non sia stata messa dove era stato previsto un pilastro: in questo caso invece il problema è molto rilevante); tuttavia, già in un edificio in muratura portante questo aspetto non può essere semplificato o ignorato, perché tutto il muro di facciata è in verità un elemento strutturale che se viene modificato nelle aperture subisce una modifica nel suo comportamento statico. Anche qui oggi esistono modalità per affrontare il problema, ma ci si scontra con il macigno della cosiddetta sanatoria strutturale, la quale è una procedura che, secondo i più recenti orientamenti giurisprudenziali, neanche esiste, ma che invece a parere di chi scrive dovrebbe essere resa non solo possibile, ma anche chiara nei procedimenti proprio per evitare che si possano creare situazioni di pericolo statico.
Eliminazione della doppia conformità
E qui veniamo ad uno dei punti più delicati dell’intero tema della sanatoria delle difformità, che è quello dell’interpretazione giurisprudenziale delle varie procedure. La legge italiana non è molto chiara sulle procedure di accertamento di conformità, e questo ha generato un proliferare di interpretazioni sulle norme che sono spesso tutte condivisibili e ragionevoli, ma che finiscono con il disorientare il cittadino, il suo tecnico ma anche l’ufficio amministrativo perché sono spesso contraddittorie: l’auspicio più grande è che questa novità normativa sia improntata a rendere più chiaro, o almeno un po’ meno contrastato, il meccanismo dell’accertamento di conformità, oggi gestito dagli articoli 36 e 37 del DPR 380/01.
Uno degli aspetti chiave dell’accertamento di conformità di oggi è il concetto della doppia conformità, che è invece uno dei temi espressamente evocati. In estrema sintesi, questo assunto impone che una difformità, per poterne ad oggi accertare la conformità (cioè “sanare”), deve essere conforme alle norme edilizie ed urbanistiche vigenti sia al momento della presentazione dell’istanza, cioè “ad oggi”, sia al momento, certo o presunto, della loro esecuzione. Questo meccanismo è stato inserito nella legislazione per impedire che possano verificarsi connivenze politiche di dubbia legalità: se il requisito della sanatoria è che l’abuso deve rispettare solo le norme urbanistiche vigenti, potrebbe essere possibile, per una amministrazione politica troppo scaltra, modificare gli strumenti urbanistici comunali per rendere fattibile ciò che prima non lo era (ad esempio, rendere edificabile un’area che non lo era, ma dove si è edificato abusivamente) consentendo di fatto alle persone di poter ottenere una legittimazione ex post.
Tuttavia, questo meccanismo che, come visto, ha un obiettivo importante, finisce per scontrarsi con una serie di illogicità procedurali: mettiamo che un immobile sia afflitto da una difformità risalente alla originaria costruzione, che è consistita nel produrre un aumento di volume che, all’epoca della costruzione, era autorizzabile anche “in variante”, ma che con le norme di oggi non è più fattibile: in questa situazione, l’inerzia del costruttore che non ha presentato la variante si riverbera in modo devastante sul proprietario attuale il quale si trova per le mani qualcosa che avrebbe potuto essere legittimato all’epoca, ma che oggi è un abuso insanabile.
Altro caso caso controverso, quello in cui un opera difforme è stata realizzata nel passato, in cui non era realizzabile, mentre invece oggi lo sarebbe secondo le norme vigenti: anche in questo caso, non è possibile conseguire la sanatoria perché manca il requisito della conformità al momento della realizzazione; tuttavia, dato che è fattibile ad oggi, sarebbe possibile demolire l’abuso per poi ottenere i permessi per poterlo ricostruire esattamente uguale a prima: in base a questa illogica procedura, alcune sentenze nel passato hanno ritenuto sussistere in taluni casi la “sanatoria giurisprudenziale” che è stata rappresentata da alcuni casi isolati di costruzioni che sono state “salvate” dalla demolizione proprio perché legittimabili secondo la normativa vigente. Come visto da questi pochi esempi, e se ne potrebbero fare molti altri, è evidente che il meccanismo della doppia conformità, inserito nella legislazione con motivazioni condivisibili, finisce per essere più un ostacolo che una tutela, dunque può essere sensato eliminarla ma, ad avviso di chi scrive, potrebbe essere opportuno mantenerla per alcune fattispecie di difformità più rilevante.
Altra difficoltà oggettiva dell’applicazione del principio della doppia conformità è quella di ricostruire l’esatto stato normativo in un determinato momento nel tempo: tutte le norme cambiano, sia quelle nazionali, sia soprattutto quelle della regolamentazione comunale. Mentre ricostruire le norme nazionali in un determinato momento è tutto sommato facile, molto più complesso è farlo con le norme comunali, visto che è spesso impossibile trovare ad esempio le versioni precedenti dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori, creando una voragine di incertezza che può inghiottire moltissimi contesti.
Modifica del parametro della tolleranza costruttiva
Veniamo all’ultimo punto, avviandoci alla conclusione di questa nostra evocazione: parliamo della possibilità di modifica del parametro della tolleranza costruttiva. Ad oggi il valore della tolleranza costruttiva è fissato nel 2% delle misure progettuali, indicato nell’art. 34 bis DPR 380/01.
Questo valore di tolleranza, ad oggi, e ad avviso di chi scrive, ha due criticità fondamentali:
- è un valore troppo esiguo per fabbricati costruiti nei decenni passati, quando le regole tecniche erano meno precise ma soprattutto meno stringenti erano i controlli, la vigilanza e l’approccio dei tecnici;
- ha una definizione troppo generica, perché si riferisce “alle misure progettuali” senza dare indicazioni su come si possa applicare in concreto.
Sulla esiguità del valore sembra si stia ponendo un rimedio, “banalmente” aumentando tale valore. In fondo, la soglia di tolleranza costruttiva nel passato era già stata aumentata in specifici contesti normativi: ad esempio la L. 89/2018 di conversione del DL 55/2018 aveva disposto l’innalzamento del valore al 5% per facilitare la verifica della legittimità edilizia per consentire una più facile ricostruzione edilizia nei territori colpiti dal terremoto del 24 agosto 2016.
Innalzare la soglia di tolleranza è una scelta da fare con consapevolezza: per esperienza personale professionale posso senz’altro affermare che il 2% attuale è un valore troppo esiguo per lavorare con serenità su immobili edificati prima degli anni settanta, perché spesso, se non sempre, si trovano elementi architettonici con dimensioni che superano tale soglia; dall’altra, un valore troppo largo consentirebbe ai costruttori di approfittarsene aumentando le dimensioni dell’edificio in modo indebito, visto che oggi si può accedere a strumenti di rilevazione e controllo molto più precisi rispetto al passato: potrebbe avere maggiore logica mantenere la tolleranza del 2% per le costruzioni recenti e future, ma innalzarla solo per quelle precedenti ad una data epoca.
Sarebbe poi utile che il legislatore intervenisse sulla definizione della tolleranza stessa: l’attuale definizione è estremamente generica e lascia molta interpretabilità sia al tecnico privato che deve analizzare una situazione, sia alla pubblica amministrazione. Sarebbe utile che venissero definite con maggiore chiarezza le dimensioni a cui occorre fare riferimento o come applicare il criterio in dettaglio: ad esempio, se è chiaro che un edificio che doveva essere largo in progetto 10 metri, la verifica della tolleranza si effettua misurando se questa misura è meno di 10,20 metri (10 metri + 2%), più sottile diventa il discorso se ho una finestra spostata di 20 cm di quella facciata: il limite di tolleranza si applica ugualmente? O la tolleranza va riferita alla misura della singola finestra e non alla dimensione dell’intero prospetto? Oppure occorre tutto rapportare alle dimensioni della singola unità immobiliare cui quella finestra fa riferimento? Per ora ci si affida alla diligenza tecnica del professionista incaricato, ma questi non deve potersi caricare di troppe responsabilità interpretative.
L’importante ruolo dei tecnici nella gestione delle difformità
Quale che sarà l’innovazione normativa che ci aspetta da qui a qualche giorno, è comunque importante rimarcare l’importanza dei tecnici che operano nel nostro paese, ai quali sarà affidato il compito di gestire le difformità già rilevate o che si rileveranno nel futuro.
Se mi è consentito, vorrei dire che è importante che questi tecnici lavorino con precisione, diligenza e competenza, poiché parte dei problemi che ci troviamo oggi a gestire derivano anche da un modo troppo allegro con cui alcuni dei nostri colleghi del passato hanno affrontato le costruzioni, le autorizzazioni e i rapporti con l’amministrazione; ma forse ciò era anche colpa di una complessità del dialogo tra cittadino ed amministrazione, che è un problema che ancora oggi affligge il nostro settore e su cui c’è ancora molto da fare.
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