Si chiama decomissioning ed è un termine inglese che indica lo smantellamento di un impianto. Nel nostro Paese è diventato noto quando è stato accostato alle opere legate allo smantellamento degli impianti nucleari, a cui gli italiani avevano detto “no” con il referendum del 1987: quasi trent’anni fa.
Pare che, però, l’addio alle strutture nazionali di produzione di energia nucleare, ormai obsolete, sia ben lungi dall’essere vicino. Anzi! È verosimile che la parola fine non venga scritta prima del 2035 con un ritardo di 15 anni rispetto alla data del 2020, entro cui si sarebbe dovuto concludere l’iter per la rimozione degli impianti dal suolo nazionale.
A riferire questa situazione è il quotidiano la Repubblica con un servizio di Giuseppe Caporali della scorsa settimana, nel quale si denuncia anche come i costi di questo progetto siano lievitati in modo spropositato rispetto al budget iniziale di poco più di 2 miliardi e mezzo di euro.
In base alle stime citate da Caporali, infatti, il conto salirà fino alla cifra astronomica di quasi 11 miliardi in cui sono compresi i 3,5 miliardi per la realizzazione del deposito nazionale dove conservare in sicurezza delle scorie nucleari.
E sul deposito c’è lo scandalo nello scandalo, considerando che secondo i piani statali doveva essere operativo a partire dal 2009. A distanza di 6 anni, non solo manca l’operatività, ma non si sa ancora esattamente dove sarà dislocato il deposito. E anche qui, le previsioni per la sua realizzazione parlano di un (ancora) lontano 2025.
Tutte queste lungaggini e infiniti rinvii sono stati continui nel tempo. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato deciso poco tempo fa dai Ministeri dello sviluppo economico e dell’ambiente: altri 60 giorni di tempo per ulteriori approfondimenti.
Nel suo reportage, Caporali afferma che gli extra costi di questo immenso pasticcio graveranno ancora per anni sulle tasche degli italiani con un aggravio di circa 3 euro nelle bollette per l’energia elettrica.
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