Rinnovabili sì, purché da un’altra parte…

La sindrome NIMBY esiste anche nel caso di interventi favorevoli all’ambiente. La ormai nota “fobia” secondo cui nessuno vuole, più o meno giustamente, un impianto di recupero o di smaltimento di rifiuti dietro casa – il termine “NIMBY” è l’acronimo del inglese Not In My Back Yard, che tradotto significa “non nel mio cortile” – per una sorta di (comprensibile, ammettiamolo) diffidenza verso il modo in cui queste tipologie di impianti vengono progettate, realizzate e poi gestite in Italia e, soprattutto, verso il possibile loro impatto (negativo, s’intende) sull’ambiente e sulla salute di chi sta intorno, sembra che cominci col diffondersi anche in casi opposti, quando cioè si tratta di realizzare infrastrutture e/o impianti energetici eco-compatibili, quali ad esempio gli impianti elettrici alimentati con fonti energetiche rinnovabili (cd. FER).

Questo è quanto si può ricavare da una recente pronuncia del Consiglio di Stato ( n. 1674/2013) occasionata dall’impugnazione, da parte di una società energetica, di una sentenza del TAR Molise (n. 992/2011) che aveva accolto il ricorso in primo grado presentato dalla Regione ed alcuni Enti Locali contro il decreto ministeriale di compatibilità ambientale di un progetto di impianti eolici offshore, in mezzo al mare, presentato dalla società appellante.

L’impianto in questione era stato figurato, in verità, con dimensioni piuttosto ragguardevoli: 54 turbine poste a 5 km dalla costa e disposte in 6 file da 9 turbine ciascuna. Il tutto per garantire una potenza energetica nominale di 162 MW, che, sostanzialmente, se non poteva bastare per l’intera Regione, poco ci mancava.

Ovviamente, una simile “fattoria del vento” sarebbe stata completamente visibile dalla terraferma, stagliandosi contro l’orizzonte tra cielo e mare.

Questo elemento ha fatto sì che l’appello venisse respinto, la sentenza del TAR confermata e il progetto venisse definitivamente bocciato. L’esistenza, sul tratto di costa interessata da questo “panorama”, di un vincolo paesaggistico – cosa peraltro affatto eccezionale in Italia, dove tra vincoli specifici e tutele derivanti dalla normativa sulle aree protette, una certa parte di territorio costiero è sotto tutela – ha consentito ai Giudici di dire che “il particolare pregio di un tratto di costa già riconosciuto e valorizzato con una disposizione legislativa oppure con un provvedimento amministrativo di imposizione del vincolo paesaggistico può essere leso quando dalla costa non si possa più percepire la linea dell’orizzonte che divide il cielo dal mare, a causa della realizzazione di opere stabili, realizzate per mano dell’uomo”.

Quindi, il “fastidio” nella percezione dell’orizzonte – che, inutile dire, non sarebbe stata totalmente oscurata dal parco eolico – impedisce la realizzazione di un parco eolico come quello descritto.
Il Consiglio di Stato ha dunque accolto le tesi delle amministrazioni locali, poggiate appunto su quanto appena detto. Ma cosa diceva il decreto ministeriale che, ricordiamolo, giudicava positivamente il progetto eolico?

Quel decreto – reso di concerto tra il Ministero dell’Ambiente e quello per i Beni Culturali – dava il via libera “ambientale” all’opera prescrivendo al progetto alcuni accorgimenti tecnici, come spesso accade nel mondo amministrativo, quando un ente, magari chiamato in conferenza di servizi, concede il suo assenso purché nel rispetto di ulteriori condizioni allegate al consenso stesso. Va comunque chiarito che un consenso del genere, pur con prescrizioni, resta, appunto, un consenso, un valido benestare verso quanto richiesto.

Sul punto, il Consiglio di Stato ha, invece, rilevato una certa incertezza e perplessità nel consenso ministeriale (dei due ministeri, anche se in particolare si riferiva a quello culturale), proprio a causa delle prescrizioni imposte dal decreto, che così rivelavano, secondo i Giudici, tutt’altro che un favore verso il parco eolico; l’apposizione di condizioni sarebbe stato, piuttosto, l’indice di un basso gradimento verso quell’opera.

Questa interpretazione – molto vincolante, tant’è che l’appello, come detto, è stato respinto – ha prodotto, ad avviso di chi scrive, almeno due spiacevoli conseguenze. La prima, relativamente al ruolo istituzionale dell’Autorità competente, che anche se ha detto “sì” al progetto avrebbe, invece, voluto dire “no”: i Giudici, decidendo come hanno deciso, avrebbero “salvato” una timida amministrazione evidentemente incapace, per chissà quale motivo, di mostrare un netto diniego avverso l’istanza propostale, quasi costretta (non si sa bene da cosa e perché) a concedere un permesso che non avrebbe voluto mai dare!

Questa prima conseguenza, francamente, sfiora il ridicolo: un’Amministrazione pubblica – specie se di massimo livello come una statale – ha tutto il diritto e tutta l’autorità per dire sì quando ritiene sì e dire non quando ritiene no, ben disposta a fare i conti con le conseguenze del suo operato, nelle opportune sedi giudiziali. Non ha certo bisogno di un giudice che ne “interpreta” la recondita volontà. Se si esprime positivamente ma raccomandando taluni accorgimenti è questo che vuole: che l’opera venga fatta ma con quelle specifiche.

L’altra odiosa conseguenza è quella di giudicare un impianto energetico “pulito” a cominciare dal suo aspetto e dal suo ingombro. Se un parco eolico – a terra o nel mare – può forse non essere bellissimo a vedersi e se questo, comunque, altera il territorio nel quale è collocato, lo stesso discorso dovrebbe valere per tutta una serie di infrastrutture che rimangono visibili e palesi – viarie, ferroviarie, aeroportuali, ma anche sociali e sanitarie come le scuole e gli ospedali – e che alterano il territorio, per il semplice fatto che prima non c’erano, dal momento che la Natura non le aveva create!

In conclusione, giudicare un impianto per il suo “impatto” visivo sul territorio rischia di essere paralizzante, perché tutto impatta sul territorio. Strumenti come la VIA servono, appunto, a ridurre e contenere questi impatti. Ma al di là dell’aspetto, bisognerebbe forse guardare di più alla sostanza e considerare che l’energia “verde” deve prendere sempre più piede, in un’ottica di sviluppo sostenibile.

Già sostituire i “brutti” impianti elettrici esistenti con dei “brutti” impianti alimentati a FER sarebbe un grande passo avanti in quella direzione. Con buona pace del panorama.
Altrimenti, le uniche fonti energetiche ammesse diventerebbero direttamente il sole e il vento, naturalmente compatibili, senza impianti che ne raccolgano e convoglino l’energia da questi prodotta. Ma si tornerebbe troppo indietro nel tempo…

 

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