La laurea per periti industriali: per quali motivi?

Riassunto della puntata precedente: nel nostro articolo di qualche giorno fa abbiamo trattato di come, in maniera del tutto inconcepibile per una istituzione regolata dalla legge, il CNPI avesse prima promosso unilateralmente la modifica delle norme di accesso alle professioni di agrotecnico, geometra, perito agrario e perito industriale, per poi “accontentarsi” di intervenire sui requisiti del percorso di accesso dei soli periti industriali, prevedendo per essi la necessità della laurea a partire dal 2021.

Abbiamo stigmatizzato il comportamento del CNPI e degli esponenti politici che hanno veicolato questa iniziativa essenzialmente per quanto attiene alle inusitate modalità, lesive del corretto rapporto fra istituzioni.

Entrando però nel merito, quali sono le motivazioni su cui poggia l’emendamento sartoriale chiesto e ottenuto dai periti industriali?

Sostanzialmente sono due, il primo dei quali chiaramente sintetizzato dall’incipit dell’emendamento 1.0.300:

Al fine di adeguare la normativa di accesso alle professioni regolamentate alla direttiva 2013/55/UE…

Il secondo è invece esposto più dettagliatamente nelle dichiarazioni rilasciate dal CNPI all’indomani dell’approvazione del provvedimento al Senato, di cui merita analizzare il passaggio conclusivo:

Solo con una laurea triennale quindi il professionista italiano non sarà discriminato rispetto a quello europeo…

La tesi quindi è:  l’adozione di questa modifica è imposta dalla normativa europea ma, come vedremo, ciò non è vero; inoltre, secondo i vertici del CNPI, a causa della mancanza della laurea il perito industriale italiano sarebbe discriminato in Europa; ma anche questo non è vero.

Periti discriminati in Europa: quando mai?

Del tema si è occupata la Commissione per le petizioni presso il Parlamento europeo, rispondendo a due richieste di periti industriali italiani, i quali in sintesi esponevano che:

… in Italia la professione di perito industriale è accessibile sia attraverso il diploma di maturità che mediante una laurea triennale. Tale situazione sfavorirebbe la libera circolazione dei periti industriali italiani in Europa… in quanto nel resto d’Europa i periti industriali necessitano della laurea universitaria.

La Commissione ha risposto in maniera ampia precisando che

… la Direttiva 89/48/CEE (sostituita dalla direttiva 2005/36/CE e quindi dalla direttiva 2013/55/UE) non ha armonizzato le condizioni minime di formazione dei periti industriali e non ha quindi imposto alcun obbligo agli Stati membri di predisporre una formazione universitaria di tre anni per i periti industriali. Lo stesso scaturisce per quanto riguarda la direttiva 2005/36/CE e la direttiva 2013/55/UE. Gli Stati membri sono quindi liberi di decidere il contenuto e il livello dei costi di formazione per questa professione entro i limiti del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
La decisione di elevare il livello di formazione dei periti industriali ad un corso universitario di tre anni è stata quindi una decisione autonoma per le autorità italiane così come la decisione di concedere diritti acquisiti ai periti qualificati in base al precedente sistema e titolari di un diploma di scuola secondaria.
Il firmatario sostiene che tale situazione comporta problemi in termini di mobilità in quanto coloro che dispongono di un diploma di scuola secondaria sono classificati a livello c) dell’articolo 11 della direttiva 2005/36/CE, mentre quelli che dispongono di una laurea triennale sono classificati al livello d) dello stesso articolo 11.

Attenzione ora al passaggio successivo, in cui la Commissione chiarisce che:

Gli Stati membri hanno l’obbligo di riconoscere (in conformità con le norme della direttiva) le qualifiche professionali che attestino un livello perlomeno equivalente al livello immediatamente precedente quello che è richiesto sul loro territorio. Inoltre, per gli Stati membri in cui la qualifica è classificata al livello e) dell’articolo 11, l’obbligo è quello di riconoscere le qualifiche di altri Stati membri classificate a due livelli inferiori, vale a dire d) e c).

Cosa significa? premesso che le qualifiche professionali sono classificate dal livello a) – il più basso – al livello e) – il più alto,  è utile tenere presente che, in Italia, il livello e) corrisponde ad una laurea specialistica o magistrale, il livello d) ad una laurea c.d. triennale ed il livello c) al diploma di maturità; ciò detto, nel documento la Commissione precisa che gli Stati membri sono obbligati a riconoscere le qualifiche professionali di un livello equivalente almeno a quello precedente a quello richiesto sul loro territorio; se poi la qualifica interessata si trova al livello e) gli Stati membri debbono riconoscere le qualifiche degli altri stati anche se di due livelli inferiori, cioè c) e d).

Prosegue la Commissione:

In concreto, ciò significa che gli Stati membri in cui la qualifica professionale di perito industriale è classificata al livello d) o e) della direttiva 2005/36/CE avranno l’obbligo di riconoscere (in conformità con le norme della direttiva) le qualifiche italiane dei periti industriali classificati a livello c) o d).

La Commissione chiarisce anche che

…La situazione rimarrà immutata in base alla direttiva 2013/55/UE.

ed infine, rispondendo al presunto problema sollevato dai ricorrenti, così conclude:

La Commissione non è in grado quindi di identificare alcun problema in termini di mobilità a causa della classificazione a due diversi livelli dell’articolo 11 della direttiva 2005/36/CE delle qualifiche italiane di perito industriale né per i periti industriali italiani che si trasferiscono in un altro Stato membro, né per i periti industriali che si trasferiscono in Italia da altri Stati membri.

Insomma, nessun problema per i periti industriali in Europa: la tesi del CNPI, come già accaduto diversi mesi fa, altro non è che fuffa di primissima scelta.

Allora: i periti industriali diplomati hanno la stessa identica possibilità di esercitare la professione in Europa dei periti industriali laureati (che, sia detto per inciso, in Italia sono quattro gatti) e l’entrata in vigore della direttiva 2013/55/UE non ha modificato tale situazione, così come precisato dalla Commissione.

Resterebbe quindi da capire perché mai nell’emendamento 1.0.300 della relatrice Sen. Puglisi (PD) si affermasse il contrario; noi non siamo però così esperti da poterlo suggerire.

Ad ogni modo, posto che i motivi a base del fuffemendamento sono del tutto insussistenti, non c’è motivo per cui, anche di fronte alla crescente opposizione della ‘periferia’ che si sta palesando in questi giorni, il governo non debba prendere l’impegno di provvedere quanto prima alla soppressione dell’art. 1-septies, come abbiamo chiesto nell’articolo già citato.

Qui il testo completo della risposta della Commissione

 

Stefano Batisti

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