La disciplina del cambio destinazione uso, con o senza opere, è da sempre caratterizzata da oggettive incertezze applicative, generate dalle differenti discipline regionali e dalla frammentazione delle regole locali contenute negli strumenti urbanistici comunali.
Il punto centrale della tematica è determinato dalla variazione dei carichi urbanistici e quindi dalla necessità di adeguamento degli standard che i cambio destinazione uso, anche in assenza di opere, possono generare.
Prima della riforma del 2014 contenuta nel decreto legge c.d. “sblocca Italia” [1] convertito con modifiche con la L. 164/2014, il D.P.R. 380/2001 “T.U. Edilizia” recava la disciplina dei cambi d’uso in due articoli.
L’art. 10, comma 2, per effetto del quale è attribuito alle Regioni stabilire quali mutamenti della destinazione d’uso, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio di attività (ora SCIA), con previsione comunque del permesso di costruire per i cambi d’uso connessi ad opere di ristrutturazione edilizia nei centri storici (comma 1 lett. c)).
L’articolo 32, comma 1 lett. a) in virtù del quale è variazione essenziale al progetto approvato il cambio destinazione uso che implichi variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444 [2].
La legge n. 164/2014 ha inserito nel D.P.R. 380/2001 l’art. 23-ter titolato “Mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” [3] il quale indica le regole sui cambi d’uso.
Obiettivo dell norma è quello di uniformare le differenti normative regionali e semplificare l’applicazione della disciplina.
La nuova disposizione statale sui cambi d’uso è stata emanata quale norma di semplificazione e liberalizzazione e dunque determina livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da assicurare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, a termine dell’art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione.
Leggi anche Il cambio destinazione d’uso comporta un carico urbanistico.
L’art. 23-ter si articola in tre commi.
Il primo comma definisce cos’è il mutamento della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.
È cambio destinazione uso urbanisticamente rilevante, ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, con o senza opere, che comporti il passaggio ad una diversa categoria funzionale, tra le cinque seguenti:
1) residenziale [4];
2) turistico-ricettiva;
3) produttiva e direzionale;
4) commerciale;
5) rurale.
Dunque il cambio destinazione uso urbanisticamente rilevante è solo quello che comporta il passaggio tra l’una e l’altra delle cinque categorie funzionalmente autonome indicate dalla legge, indipendentemente dalla realizzazione o meno di opere.
In tal modo è assicurata tutela alla zonizzazione e controllo sull’adeguatezza degli standard in relazione all’incidenza dei diversi usi.
Cambio destinazione d’uso urbanisticamente rilevante: il caso Emilia Romagna
All’interno della stessa categoria le destinazioni d’uso sono ritenute urbanisticamente omogenee, in quanto determinano carichi urbanistici sostanzialmente equivalenti.
I Comuni possono dettagliare le tipologie delle destinazioni uso degli immobili all’interno della stessa categoria funzionale (es. prevedendo gli usi di studi professionali, ambulatori, palestre, artigianato, ecc.) ma non possono modificare le “categorie funzionali” che devono essere solo quelle (cinque) stabilite dalle legge.
Il comma 2 indica il criterio per l’attribuizione della destinazione d’uso: “La destinazione d’uso di un fabbricato o di unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile”.
In presenza quindi di una “destinazione mista” nell’ambito di uno stesso fabbricato o di una unità immobiliare, la norma statale chiarisce che la destinazione d’uso è quella che risulta prevalente in termini di quantità di superficie utile, ossia quella equivalente ad almeno il 50,1%.
La superficie da considerare sarà quella autorizzata dal titolo abilitativo, ivi compreso eventuali accertamenti di conformità urbanistico-edilizia, non potendosi considerare usi in atto in contrasto con i titoli edilizi.
In assenza di titolo abilitativo si farà riferimento alla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento ovvero ad altri documenti probanti [5].
La definizione di superficie utile cui fare riferimento, nel silenzio della disposizione, sarà quella delle norme tecniche degli strumenti urbanistici comunali.
Il comma 3 così dispone: “Le regioni adeguano la propria legislazione ai principi di cui al presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito”.
Alle Regioni è assegnato il termine di giorni novanta dalla data di entrata in vigore della legge di conversione (12 novembre 2014) entro il quale adeguare la propria legislazione ai principi della legge statale.
Decoro tale termine, dunque dal 10 febbraio, l’art. 23-ter trova diretta applicazione con l’automatica sostituzione delle differenti normative regionali e delle normative dei piani urbanistici comunali.
L’ultima parte del comma, che da un lato afferma il principio che il cambio destinazione uso all’interno della stessa categoria funzionale, è sempre ammesso, ma dall’altro fa salva la diversa previsione delle disposizioni regionali e degli strumenti urbanistici comunali, indebolisce la ratio di semplificazione della disposizione e non appare molto comprensibile.
Il cambio desinazione uso deve avvenire nel rispetto delle norme della pianificazione comunale.
articolo di Valeria Tarroni, Responsabile Servizio Pianificazione, Edilizia Privata e Ambiente di ente locale. Consultente di modulisticaonline.it.
[1] D.L. 12/9/2013 n. 133 convertito con modifiche dalla L. 11/12/2014 n. 164.
[2] Il D.M. 1444/1968 prevede standard minimi per zone territoriali omogenee: A “centri storici”; B “zone totalmente o parzialmente edificate; C “zone di espansione insediativa”; D “zone di espansione industriale”; E “zone agricole”; F “zone per attrezzature ed impianti di interesse generale”.
[3] L’art. 23-ter è stato introdotto nel TUE, dall’art. 17, comma 1, lett. n) della L. 164/2014.
[4] Il D.L. 133/2014 aveva previsto un’unica categoria “residenziale e turistico-ricettiva” poi divisa in due categorie funzionali distinte “residenziale” e “turistico-ricettiva” con la legge di conversione n. 164/2014.
[5] In tal senso la L.R. Emilia-Romagna n. 15/2013 art. 28 comma 3.
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