Lo scorso anno è stato emanato il noto “decreto del fare”, il DL 69/2013, poi convertito in legge (con legge 98/2013, pubblicata in G.U. n. 184 del 20 agosto 2013) che, nel dichiarato intento di rilanciare l’economia nazionale, si era occupato di diversi aspetti che coinvolgono tale accezione: uno tra tutti, per attenerci al settore ambientale, la disciplina delle terre e rocce da scavo, che ha visto comparire, con l’art. 41-bis del DL citato (alla cui lettura, congiunta a quella del precedente art. 41, si rimanda per non dilungarci troppo) le regole di gestione c.d. semplificata, per gli impianti di piccole dimensioni e per quelli relativi alla realizzazione di progetti di opere (interventi non soggetti da AIA e/o VIA (ma in tutti i casi?), che, quindi, oggi vigono al fianco di quelle ordinarie, previste dall’apposito DM 161/2012.
Quello stesso testo di legge, però, contiene un’altra norma, che desta oggi il nostro interesse: il riferimento corre all’art. art. 41-quater, che ha introdotto la “disciplina dell’utilizzo del pastazzo di agrumi“, norma posta (in un certo senso, significativamente) dopo l’art. 41-ter, dedicato, invece, ad introdurre alcune modifiche normative in alcuni casi “ad inquinamento scarsamente significativo“.
Per prima cosa, cos’è il pastazzo cui la norma si riferisce? Si tratta del c.d. pastazzo di agrumi, cioè di un (in senso innanzitutto tecnico) sottoprodotto dell’industria agrumaria ottenuto con gli scarti (principalmente le bucce) di tali frutti e che in agricoltura è sempre stato adoperato come ammendante vegetale, mentre in zootecnia veniva utilizzato nelle miscele di concentrati per l’alimentazione animale (p. es. dei bovini).
Insomma, si tratta sì di uno scarto – quindi, per certi versi, di un potenziale rifiuto – ma dalle proprietà tali per cui se ne è sempre fatto uso nel settore agricolo, con ciò escludendo ogni intenzione di disfacimento da parte del produttore – e, così, facendo venir meno il requisito soggettivo sotto stante all’identificazione dei rifiuti.
Queste connotazioni hanno portato la norma citata a disporre che il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con quello dello sviluppo economico e con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali “adotta entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, un decreto contenente disposizioni che consentano la produzione, la commercializzazione e l’uso del pastazzo di agrumi quale sottoprodotto della lavorazione degli agrumi ad uso agricolo e zootecnico, sottraendolo in modo definitivo alla disciplina dei rifiuti”.
Oltre ad esortare tale regolamentazione, la norma prosegue prevedendo altresì la necessità di adottare “un decreto ai sensi dell’articolo 184-bis, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, per stabilire i criteri qualitativi e quantitativi per l’utilizzo delle sostanze prodotte nel corso della lavorazione degli agrumi, nel medesimo o in altri cicli di produzione”.
È ormai pacifico, leggendo queste norme, che il pastazzo di agrumi non è un rifiuto perché è un sottoprodotto (ora, anche in senso giuridico).
Dal momento che l’utilizzo del pastazzo è assai risalente nelle tradizioni rurali ed è quindi pratica diffusa da tempo immemore, come mai, oggi, è dovuta intervenire un’apposita norma per consentirne (recte, per permettere che sia ancora consentito) l’uso come fertilizzante e/o cibo per animali?
Perché per un certo tempo la giurisprudenza – quantomeno, da quando s’è iniziato a parlare di sottoprodotti – ha condannato l’uso del pastazzo in agricoltura, assimilando tale sostanza ai rifiuti ed il loro utilizzo come una sorta di recupero abusivo, non autorizzato e perciò punibile, anche penalmente!
Una delle ultime sentenze a parlar (male) del pastazzo è proprio di poco antecedente al decreto legge in argomento, trattandosi di Cass. 28764/13, sollecitata nel valutare la legittimità di un’ordinanza di Tribunale la quale aveva confermato il sequestro preventivo di un’area agricola perché ritenuta sede di una discarica abusiva di rifiuti speciali in quanto in essa veniva rinvenuto, appunto, il pastazzo di agrumi, che il proprietario lasciava in terra sfruttandone, come detto in precedenza, la parte non essiccata quale mangime per gli animali mentre quella essiccata come ammendante vegetale.
Ma per la Corte detta ultima accezione andava categoricamente esclusa, non ammettendo “la natura di ammendante vegetale semplice del pastazzo di agrumi in relazione alla esistenza di un processo fermentativo, ovvero la natura di ammendante compostato, laddove risulti assente un preliminare processo di trasformazione e stabilizzazione“.
Quanto, invece, all’utilizzo come cibo per animali, la Corte escludeva parimenti l’uso fatto dal proprietario “in quanto rientrante nei residui di produzione e del quale il detentore abbia deciso di disfarsi”.
Oggi, come visto, non è più così e il pastazzo di agrumi, ormai ufficialmente un sottoprodotto, può venir impiegato senza più problemi per gli usi agricoli consueti. Ma era proprio necessario dover arrivare a tanto, smuovendo giudici e legislatori? Era davvero così pericoloso per la salute umana e per l’ambiente (questi sono i beni protetti dalla normativa ambientale) che quegli scarti restassero in terra, finendo poi con l’inglobamento nel terreno? Si invitano gli operatori, giudiziari prima di tutto, ad un’accurata riflessione …
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