Nel mio libro L’Appartenenza (Albatros – Il Filo) tratto di questa tendenza, quella dell’appartenenza appunto, che sembra una radicata psicologia dell’umano modo di essere, specialmente dalle nostre parti.
Tale propensione per l’ambiente chiuso mi appare dettata dalla paura per l’alieno che potrebbe alterare o addirittura devastare il proprio modo di essere, e dalla necessità di una qualche protezione che possa scongiurare una simile eventualità. Sono remote e indelebili psicologie originate dalla stanzialità dell’uomo primitivo di circa diecimila anni fa (neolitico) e sempre riproposte.
A tal proposito, mi sento di affermare che tutte le resistenze, anche molto forti e irriducibili, che vengono a manifestarsi contro le cosiddette liberalizzazioni, proposte dall’attuale e passati Governi, resistenze che vengono anche dai Collegi e Albi professionali, hanno le stesse origini suaccennate.
Tali organizzazioni, che assumono le vesti di enti pubblici anche se raggruppano persone che professano in maniera del tutto privata, dovrebbero, per legge, tutelare e controllare l’operato dei propri adepti, legge che stabilisce le regole, prima fra tutte l’obbligatorietà di iscrizione, pena l’inibizione alla professione libera .
Domando: perché, dopo aver superato l’obbligatorio esame di stato, che stabilisce l’idoneità ad esercitare legalmente, è obbligatorio iscriversi ad un Albo o a un Collegio? Perché queste organizzazioni debbono sovrintendere anche l’andamento del citato esame?
Potrei formulare tante altre domande che, credo, non troverebbero risposte logiche, ma solo irrazionali, dettate dall’appartenenza a circoscritti e “sacrali” club, i quali ultimi mi appaiono spesso di poca o nessuna utilità.
La volontà politica di circoscrivere in ambiti del tutto volontaristici l’iscrizione a queste “corporazioni” di medievale memoria mi appare meritoria, anche se dubito che tale volontà sia generalizzata: come ho già ribadito più volte, per noi italici l’ambiente chiuso non è solo una sorta di garanzia economica e sociale, ma è legata soprattutto all’orgoglio dell’identità, sentimento che travalica qualsiasi approccio razionale.
Questa mia critica agli attuali ordinamenti professionali è del tutto generale; la potrei estendere a qualsiasi altra organizzazione che fa dell’appartenenza il principale motivo esistenziale, avvertendo molte poche critiche al mantenimento dello status quo.
Da quello che ho studiato, letto e vissuto, mi sono formato l’opinione che tutto e tutti possono essere messi in discussione, specialmente gli stereotipi che appaiono più consolidati, i quali ultimi sono da tempo divenuti, per molti di noi, degli insostituibili e vitali termini di paragone.
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