Il crollo del ponte Morandi a Genova avvenuto nell’agosto del 2018, con le scene apocalittiche che dai media sono finite nell’immaginario collettivo, ha innescato un dibattito serrato su sicurezza delle costruzioni, durabilità dei materiali, necessità di manutenzione. Tante persone hanno derivato una propria opinione, spesso a partire da titoli sensazionalistici dei giornali, da frammenti di dichiarazioni esperte o poco più, su temi molto tecnici e complessi all’incrocio tra l’ingegneria strutturale e la percezione del rischio. Abbiamo messo a confronto Antonello Ciccozzi, Professore associato di Antropologia Culturale presso l’Università degli Studi dell’Aquila (a), e Andrea Barocci, Ingegnere libero professionista (b).
Sicurezza delle costruzioni, ingegnere e antropologo a confronto
Cos’è il rischio? Cos’è la sicurezza?
Andrea Barocci. Antonello Ciccozzi, facciamo ordine: tu sei un antropologo che si occupa di percezione del rischio, io un ingegnere che si occupa di strutture. Nei giorni dopo il crollo del ponte Morandi a Genova mi sono trovato spesso in difficoltà, da tecnico, a spiegare a chi tecnico non è certi concetti come sicurezza, rischio, durabilità, manutenzione.
Ho sentito tante volte la frase “Quel ponte non era sicuro” assieme a “Lo percorrevo quattro volte al giorno”; la frase “Il ponte era progettato male” assieme a “Mancava la manutenzione”. Quando ascolto questi discorsi non riesco a dissociarli dal vizio del fumo: il fumatore sa benissimo che fumare fa male, gli viene ricordato anche su ogni pacchetto che compra, ma lo fa ugualmente.
Ho provato allora a dimenticare il mio lavoro, che mi fa avere una visione “dedicata” su questi temi, e a pensare come se fossi stato una sarta, un commercialista, un pensionato. Cos’è per me la sicurezza? Cosa il rischio? Qual è quel numero che, messo sulla bilancia, mi fa desistere dal fare una cosa oppure continuare a farla? Aiutami a capire queste cose.
Antonello Ciccozzi. Prima di tutto direi che il discorso che proponi sottende una linea sfocata di confine, quella tra senso comune e saperi esperti, che rimanda sia alle tematiche della percezione del rischio che a quelle dei saperi, nel nostro caso, tecnico-ingegneristici. Vi è da notare che il senso comune non è una forma di pensiero meramente irrazionale, ma rispetto alle forme di razionalità, diciamo, tecnico-scientifiche, presenta delle caratteristiche di prima di tutto di semplificazione, di tendenza al binarismo, alla monocausalità. Fatte queste premesse, per quanto riguarda il nostro discorso, aggiungerei che a livello di senso comune si tende a confondere il concetto di rischio con quello di pericolo, e a concepire la sicurezza, o, all’opposto, la pericolosità in termini binari.
Non esistono sicurezza o pericolo totali o nulli, se non asintoticamente: si tratta di concetti che rimandano a situazioni che non hanno un andamento discreto, binario, ma che si dispongono in una distribuzione gaussiana. Quasi sempre la sicurezza assoluta è un concetto ideale, e in un certo senso nemmeno del tutto auspicabile, in quanto il suo ottenimento porterebbe di fatto a una tendenziale o completa ibernazione della vita. Generalmente l’obiettivo di una politica di riduzione del rischio è massimizzare il livello di sicurezza entro soglie che definiamo accettabili, a partire da un orizzonte di senso socialmente condiviso con cui concepiamo quell’accettabilità (che è un concetto chiave nell’analisi del rischio).
Ad esempio, in via perlopiù implicita, seguitiamo a ritenere abbastanza accettabile che ogni anno muoiano in Italia più di tremila persone per incidenti d’auto. Lo ritentiamo tanto accettabile da non prendere misure drastiche: saremmo disposti a ridurre tutte le velocità massime, anche in autostrada, a 60km/h? o a 40km/h per essere ancora più sicuri? Non credo. Lo riteniamo, all’inverso, abbastanza inaccettabile, tanto quanto basta per trarre da ciò stimolo per innovazioni che migliorano la sicurezza (pensiamo all’evoluzione dei dispositivi di sicurezza sulle automobili). Quindi, come accennavo, l’accettabilità del rischio rimanda a convenzioni socialmente standardizzate, che variano da luogo a luogo e tra tempo e tempo, che tendono a stabilire culturalmente quali rischi si possono correre e quali no; tutto questo produce poi una reazione tecnica che stimola la ricerca d’innovazioni.
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Gli Stati Limite e il cittadino comune
B. Immagino che le scelte del Codice Stradale siano dettate da specifiche analisi che sinteticamente (e cinicamente) possiamo definire come “costi-benefici”; le Normative tecniche sulle Costruzioni applicano pienamente questo concetto. Soprattutto a partire dall’inizio degli anni 2000, con l’introduzione del metodo semiprobabilistico agli Stati Limite, la legge fornisce al professionista il valore di alcune azioni (sollecitazioni) alle quali la costruzione deve resistere: tali valori sono quelli dal legislatore ritenuti corretti, per il periodo storico e per la società che li dovrà applicare, sulla base di valutazioni economiche, etiche e di fattibilità tecnica. Ognuna di queste azioni ha al proprio interno una piccola percentuale di venire superata, ma costruire strutture che resistano ad azioni maggiori implicherebbe costi ritenuti troppo alti per la comunità (e non giustificabili appunto per coprire una bassa probabilità di accadimento).
Per esempio, uno dei parametri chiave per verificare un’opera strutturale è lo Stato limite di salvaguardia della vita (SLV): a seguito del terremoto, la costruzione subisce rotture e crolli dei componenti non strutturali ed impiantistici e significativi danni dei componenti strutturali, ma conserva una parte della resistenza e rigidezza per azioni verticali e un margine di sicurezza nei confronti del collasso per azioni sismiche orizzontali. In sintesi, la costruzioni si danneggia pesantemente ma consente ai suoi utilizzatori di salvarsi.
Non tutti i tipi di opere hanno però lo stesso grado d’importanza, quindi devono raggiungere lo SLV a condizioni differenti, cioè resistere a terremoti differenti; se prendiamo come parametro di riferimento un sisma d’intensità X, grossolanamente si può dire che:
- L’abitazione (edificio ordinario, classe II) deve raggiungere lo SLV quando arriva il terremoto pari a X.
- La scuola (edificio rilevante, classe III) deve raggiungere lo SLV quando arriva un terremoto pari a una volta e mezzo X. Quando le abitazioni si danneggiano, le scuole devono rimanere operative.
- L’ospedale (edificio strategico, classe IV) deve raggiungere lo SLV quando arriva un terremoto pari a due volte X. Quando abitazioni e scuole si danneggiano, gli ospedali devono rimanere operativi.
Una volta chiariti questi concetti, il cittadino anche se non tecnico (o non ben informato dal proprio tecnico) deve essere consapevole che:
- La propria abitazione, anche se nuova e appena costruita, è “autorizzata per legge” a danneggiarsi quando arriva un terremoto.
- Tutti hanno la facoltà di scegliere abitazioni più performanti rispetto al minimo normativo (p.es. il Sig. Rossi Mario potrebbe chiedere al proprio ingegnere di progettargli una casa con lo stesso livello di sicurezza di un ospedale).
Questo è possibile, e lo si fa quotidianamente, per le nuove costruzioni; rimane il problema di tutto ciò che è stato realizzato prima del recente impianto normativo e, in particolare, a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘70 in un periodo in cui le leggi sulle costruzioni erano scarne e non avevano esplicitate le condizioni di cui abbiamo parlato sopra.
Sul DL Emergenze
Decreto Genova: tutti i contenuti del D.L. emergenze
Dal D.L. 109 fino alla legge 130/2018. Le misure per Genova, Ischia e i territori colpiti dal sisma, le opere pubbliche, l’ingegneria civile e i trasporti, la ricostruzione e il consolidamento di abitati e immobili.Contiene:- Interventi urgenti per il sostegno e la ripresa economica del territorio del Comune di Genova- Sicurezza della rete nazionale delle infrastrutture e dei trasporti- Misure urgenti nei territori dell’isola di Ischia interessati al sisma del 21/8/2017– Misure urgenti per gli eventi sismici dell’Italia centrale del 2009, 2012, 2016 e 2017Monica Greco, specializzata in approfondimenti normativi e divulgazione tecnico-scientifica
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Rischio o pericolo? Che differenza c’è?
C. Poi, ci sarebbe da aggiungere, ci sono questioni semantiche che riguardano l’uso di certi termini che finiscono per affermarsi a livello di senso comune entro significati semplificati e a volte fuorvianti. Accennavo al fatto che termini come “rischio” e “pericolo” nel linguaggio comune vengono spesso scambiati; e questo ingenera confusione. Ciò anche perché si tratta di quasi-sinonimi, dove etimologicamente “pericolo” deriva da “rischio” (che a sua volta ha un’etimologia incerta). Più analiticamente, che differenza c’è tra rischio e pericolo? Iniziamo con il dire che il primo rimanda a un’eventualità, il secondo a una circostanza. Il primo esempio che faccio a lezione è questo: una curva è pericolosa se ha delle caratteristiche fisiche, e se è pericolosa è rischioso attraversarla in un certo modo (a una certa velocità).
Il rischio è l’eventualità di subire un danno, derivante dall’esposizione a un pericolo (e varia in funzione della vulnerabilità dell’ente esposto). Il rischio è un processo, un comportamento, uno stato; il pericolo è una condizione, una proprietà. In tal senso la pericolosità (che si oppone alla sicurezza) riguarda situazioni, materiali, fenomeni, enti, sostanze. Ci si mette in pericolo quando ci si espone a un rischio. Tra l’altro, tutto questo chiarisce che rischio e pericolo non sono termini assoluti, ma relativi; nel senso che dipendono dalla relazione che abbiamo con gli enti a partire dalle nostre caratteristiche. Mi spiego con qualche esempio: una curva diventa pericolosa quando passiamo dall’andare a piedi al percorrerla con l’automobile; una parete verticale è pericolosa per un umano, non lo è affatto per un ragno; o, meno che mai, per un uccello (già, ma a condizione che non vi impatti addosso).
Inoltre, qualsiasi discorso sul rischio è legato alla percezione, a partire da un principio: la percezione del rischio è in gran parte (o secondo alcuni paradigmi teorici, totalmente) costruita culturalmente: l’uomo è un animale culturale, ed è a partire da una consapevolezza culturale che comprendiamo la pericolosità di un qualsiasi ente o fenomeno. L’esempio che fai sul fumo calza a pennello: prima che la scienza arrivasse a definire chiaramente la pericolosità del fumo di sigaretta, le persone erano più esposte al rischio di contrarre tumori al polmone a causa di questa abitudine; per molti tuttavia questo rischio ormai noto resta accettabile rispetto al piacere del vizio, alla dipendenza. Ciò in un panorama di accettabilità dove, non del tutto paradossalmente, anche lo sfidare questo rischio può far parte del piacere stesso. Si fuma non sono solo nonostante faccia male, ma anche perché fa male, perché il fumo di tabacco è un blando veleno che attiva una circostanza in cui qualcuno può trarre beneficio dall’accettazione della sua pericolosità.
Che vuol dire? vuol dire che con il rischio spesso facciamo i “surfisti”: ne cavalchiamo l’onda, in equilibrio accettabile tra sicurezza e pericolo; e questo avviene più spesso di quanto pensiamo. Accennavo comunque al fatto che un pericolo non segnalato rappresenta una fonte di esposizione al rischio maggiore di un pericolo segnalato. La necessità di un’antropologia del rischio sta tutta qui: approdare a una comprensione intersoggettiva della pericolosità (questa è una precondizione per mettere in campo politiche e strategie cogenti orientate alla messa in sicurezza). Insomma, questi concetti rimandano sempre a una dimensione combinatoria, che si scontra con la tendenza di senso comune a ragionare in termini monocausali. Un paio di formule di base possono aiutare a chiarire la questione[1]:
- RISCHIO (R) = probabilità che si realizzi un evento pericoloso (P) combinata con la gravità del danno (D). R=PxD
- RISCHIO (R) = ESPOSIZIONE, volontaria o meno (E) A FONTI DI PERICOLO pericolo= possibilità di danno (P); è da intendere in funzione delle condizioni di VULNERABILITA’ (V) del soggetto esposto (ossia la sua propensione a subire danni). R=PxVxE (Rischio = Pericolosità x Vulnerabilità x Esposizione)[2].
Il punto è che anche a livello di saperi esperti c’è spesso poca conoscenza o preparazione rispetto a questioni di percezione del rischio, che restano confinate a una sorta di spontaneità, di folklore della comprensione; e questa impreparazione è un fattore chiave che contribuisce all’esito disastroso di molte situazioni di rischio. Per chiarirci: pericoli più insidiosi sono quelli non riconosciuti come tali: una fontana avvelenata è più pericolosa se non c’è scritto “non bere” (se manca una corretta segnalazione di pericolo), o pericolosissima ce c’è scritto “acqua potabile” (se è presente un’erronea segnalazione di non pericolosità).
Il punto sta tutto qui: riconoscere la pericolosità per diminuire il rischio. Si tratta di un atto che sta a cavallo tra una dimensione tecnica e una culturale; e ci si cura poco di costruire “ponti” (lo metto virgolettato, perché parlo di ponti simbolici, di connessioni interdisciplinari[3]) tra queste dimensioni. Quindi siamo di fronte a due assi interpretativi, quello tra saperi esperti e senso comune; e quello, interno al primo ma non completamente, tra saperi tecnici (matematico ingegneristici) e saperi umanistici (psico-socio-culturali).
Le formule: come applicarle alla realtà?
Va poi compreso qual è il senso e, soprattutto, l’uso dentro il discorso scientifico umanistico di formule combinatorie come quelle appena accennate. La questione riguarda le procedure categoriali che si mettono in campo per costruire gli oggetti di qualsiasi discorso scientifico. In merito va chiarito che se i saperi tecnici e scientifico-naturali si fondano primariamente sulla scrittura simbolico-numerica, le scienze umane poggiano più su dispositivi retorici di messa in discorso dei saperi. Semplificando: da un lato vi sono (primariamente) formule, dall’altro (primariamente) parole[4]. Tuttavia, così come il discorso tecnico ha esplicito ed esteso bisogno di supporti retorici (non esistono libri di matematica senza parole atte a connettere e a dare senso alle formule), il discorso umanistico ha implicito bisogno di supporti tecnici (la retorica senza logica e senza un’epistemologia di fondo si riduce a pseudoscienza priva di fondamento).
Vale a dire che in ambito scientifico umanistico è raro trovare formule esplicitate, ma la consapevolezza di esse è non solo utile, ma si configura come un fondamento tanto rado e sottinteso quanto indispensabile a guidare l’analisi su un piano epistemologico concreto. Non è necessario dichiarare certe formule in modo puntuale e ricorrente, ma è opportuno comprenderle, tenerle a mente come bussola di orientamento, come base di una metafisica latente che cerchi un fondamento capace di andare oltre le semplificazione e le suggestioni di senso comune. Questo considerando che in ambito umanistico è meno frequente trovare la tendenziale omogeneità epistemologica degli statuti di verità che sono presenti in ambiti tecnici: i paradigmi sono più sfocati e suscettibili al peso della plausibilità e a una certa malleabilità interpretativa. Tornando al nostro caso, tutto questo vuol dire che i discorsi umanistici sul rischio, che aspirino ad essere concretamente scientificamente fondati, devono prevedere una consapevolezza multifattoriale e un approccio combinatorio.
Riprendiamo l’ultima formula vista, quella che ci dice che il rischio (R) è dato dalla combinazione tra il pericolo (P), la vulnerabilità (V) e l’esposizione (R=PxVxE). Ad esempio, volendo coniugare questa formula astratta in una situazione concreta, possiamo calarla in un merito al rischio sismico; in tal senso i danni, la distruttività, la disastrosità complessiva di un fenomeno come un terremoto è data dall’agente d’impatto (l’entità fisica del sisma che determina la sua pericolosità), le caratteristiche costruttive degli edifici (la loro vulnerabilità) e dalla posizione degli individui al momento della scossa (il trovarsi all’aperto, dentro edifici sicuri o vulnerabili).
Questo ci fa capire che la gente muore a causa dell’accelerazione prodotta dalla scossa, dei limiti di resistenza degli edifici e del trovarsi o meno dentro ad essi al momento della scossa; e a uccidere non è solo uno di questi fattori, ma la loro necessaria combinazione. Dedicai tempo a questi ragionamenti, avendo lavorato come consulente per l’Accusa al processo dell’Aquila alla Commissione Grandi Rischi, per spiegare che, diversamente da quanto semplifica una sorta di proverbio sismologico molto diffuso tra gli esperti del settore che recita che “ad uccidere non sono i terremoti ma le case”, l’analisi del rischio ci fa comprendere che quel detto, singolarmente diffuso in ambienti sismologici, sottende una semplificazione monocausale e tendenzialmente pseudoscientifica, in quanto ad uccidere sono i terremoti, le case e il trovarsi dentro di esse durante la scossa[5].
A voler coniugare queste formule generali nello specifico del caso del crollo del ponte Morandi a Genova, potremmo definire la pericolosità come una costante, data dall’altezza del ponte, la vulnerabilità potrebbe essere riferita alla tenuta strutturale della costruzione e l’esposizione si potrebbe intendere nella ventura di trovarsi o meno sul ponte al momento del crollo (nel senso che chi percorre il ponte quotidianamente per andare al lavoro è più esposto, ad esempio). Da una differente prospettiva – centrata meno sulle persone che sulle strutture – potremmo invece inquadrare la pericolosità in funzione della capacità di carico della struttura, la vulnerabilità in funzione della sua deperibilità nel tempo, e l’esposizione rispetto alla presenza di agenti ambientali capaci di cagionare una perdita della tenuta strutturale.
Dico questo per mettere in chiaro che la declinazione di queste formule rimanda a una più o meno ampia componente interpretativa: dipende dal modo in cui s’intendono le variabili che le compongono, in cui mettiamo in atto le procedure di oggettivazione che sottendono la comprensione di questi fenomeni. Come pure è chiaro che da una prospettiva strutturale la vulnerabilità varia nel tempo in funzione dell’esposizione (un complesso che, nella prima coniugazione proposta di quella formule, ricade invece tutto nella dimensione della vulnerabilità).
Il punto è che, a prescindere da come costruiamo questi modelli di valutazione, resta centrale la questione della multifattorialità nella comprensione scientifica dei fenomeni di rischio (soprattutto come antidoto alla tendenza del senso comune a semplificare e a cercare spiegazioni monocausali); e risulta evidente il ruolo chiave della vulnerabilità per comprenderne l’andamento.
Pericolosità, esposizione, vulnerabilità: il loro peso non può essere variabile
B. Qui ti devo interrompere perché, da ingegnere, la visione non è chiara come tu la illustri dal tuo punto di vista. È appurato che il rischio si compone di tre fattori: pericolosità, esposizione e vulnerabilità: non ci vedo però la possibilità di scegliere liberamente il peso (o la definizione) dei singoli componenti e quindi “cambiare prospettiva”.
Riprendendo il tuo esempio specifico sul ponte di Genova, a mio avviso la pericolosità è data dalle massime azioni (esterne o interne) che deve sopportare, l’esposizione è data dalle persone e dall’economia coinvolte in un suo crollo (se il ponte fosse crollato in un deserto, o se esso non fosse stato necessario per tutto il traffico del porto, lo scenario dopo il 14 agosto sarebbe stato diverso), la vulnerabilità è data dal suo livello di sicurezza nei confronti della pericolosità.
Una definizione univoca è l’unica possibilità per la Normativa Tecnica delle Costruzioni ed è l’unica maniera che ha lo Stato per provare a fare Leggi che siano il meglio possibile per la società che ne è governata, in quel periodo storico e con quelle conoscenze.
Il rischio visto da cittadini
E questo mi dà la possibilità di tornare a una questione precedente. Concordo pienamente con il fatto che non esiste il rischio nullo né la sicurezza assoluta, ma questo secondo me non significa che un qualsiasi cittadino sia tenuto a saperlo, in riferimento a specifici contesti.
Il ponte era stato costruito “a norma di legge”, perchè quando lo percorro la mattina dovrei essere consapevole di un rischio che sto correndo? Dovrei essere consapevole che se parlo al cellulare mentre guido rischio di fare un incidente, oppure che potrebbe esserci ghiaccio, oppure che qualcuno mi tamponi… Questo è il rischio che qualsiasi cittadino dovrebbe essere conscio di affrontare, proprio come l’esempio delle sigarette. Ma un ponte no, non credo sia nella mentalità di nessuno: un’opera costruita dall’uomo per l’uomo, con apposite normative, non mi deve dare, come cittadino, l’idea di rischio. Se quell’opera è stata realizzata, esiste affinché qualcuno la utilizzi, e nella mia mente deve essere sicura e non mi può sfiorare il dubbio che non lo sia, altrimenti viene a mancare qualcosa nel rapporto tra Stato e Cittadini. Scopo dei Giudici, in questo caso specifico, sarà appunto stabilire perché questa certezza che dovrebbe esserci è stata disattesa, e chi ne è il responsabile.
Diverso è il caso della mia abitazione, dove non posso esimermi dall’evitare che si generi un rischio, e dal tentare di ridurlo nel caso in cui ne prenda atto. Se la mia abitazione ha una trave particolarmente ammalorata, non posso fare finta di nulla, così come se il mio condominio è stato costruito in assenza di norme antisismiche e ora la zona è stata classificata come sismica. Ho preso consapevolezza di un rischio, mi muovo per ridurlo. La stessa cosa non può accadere (né ha senso che accada) su opere come le infrastrutture di cui io cittadino sono solo un fruitore e le faccio rientrare nel “pacchetto dei servizi” che il Governo mette sul piatto per il buon funzionamento della nazione.
Ovviamente da Ingegnere so che parte di quello che ho scritto è opinabile, ma da cittadino non posso accettare di pensare in termini di rischio un ponte.
C. Figuriamoci. Non si tratta di scegliere in totale libertà peso e definizione dei componenti, in uno scenario di aleatorietà assoluta: si tratta, per non confondere tra sistemi (i fenomeni) e modelli (le loro rappresentazioni), di comprendere la questione dell’oggettivazione, o meglio dei meccanismi generativi che sottostanno alle procedure di oggettivazione (gli oggetti del ragionamento scientifico sono enti e fenomeni unicamente “da cogliere” attraverso un processo di conoscenza, sono totalmente dati o vi è una componente di costruzione degli stessi che riguarda i percorsi interpretativi con cui arriviamo a conoscerli?).
Questo per uscire da un’illusione proto-positivista dell’oggettivismo assoluto, e riconoscere che quando definiamo degli oggetti scientifici vi è una certa componente di costruzione degli stessi anche a partire dalla loro definizione (che può essere minima e ininfluente o meno). Il tutto senza rovesciare certi residui di oggettivismo assoluto scientista di stampo novecentesco e di eredità positivistica in postmoderne forme di costruttivismo radicale – in cui si ammicca ad eccessi di relativismo di aleatorietà, d’indeterminismo che spesso lasciano, giustamente, i tecnici abbastanza interdetti – ma nella consapevolezza che la scientificità rimanda sempre a una certa componente di approssimazione, posizionalità, errore, costruzione[6]. D’altra parte nel nostro caso lo stesso modo in cui definisci, ad esempio, la vulnerabilità mostra come la scelta delle variabili e dei valori che gli assegniamo può contemplare una qualche dose di posizionalità, di prospettivismo, di interpretazione.
Questo per dire che l’oggettivismo assoluto spesso è poco altro che un buon riduttore di complessità, se non una scorciatoia anch’essa in fondo pseudoscientifica che si presta bene per usi politici, in una realtà che tentiamo di cogliere e che è sempre un po’ più caotica di quella delle meccaniche celesti (o di come le immaginiamo). Dobbiamo capire che quando affermiamo “la scienza dice questo, quindi questo è reale” i rischi di un uso sociale, politico, ideologico dei saperi scientifici sono molti, è alto il rischio di ridurre la scienza a una forma paradossale di magia funzionale all’affermazione governamentale di verità assolute.
Ovviamente, se in settori scientifici come la climatologia questa faccenda risulta più evidente, nel mondo dell’ingegneria strutturale tutto ciò riguarda dettagli per così dire asintotici e irrilevanti ai fini progettuali; in un necessario cammino verso la precisione, la riduzione dell’aleatorietà all’insignificanza; ma c’è sempre uno scarto che va considerato, e che tende a diventare tutt’altro che insignificante quando si parla di rischio e di fattori socio-culturali e politico-economici. Ciò senza pretendere di intavolare un discorso di filosofia della scienza ma solo per dire che in molti casi la prospettiva – variamente – conta, e questo vale soprattutto quando si parla di rischio.
Per il resto, intendiamoci, fornire alla cittadinanza indici di rischio per qualsiasi cosa si rivelerebbe una scelta politica oltre che poco praticabile, del tutto nefasta, scoprendosi come un’ossessione al limite della paranoia. Il punto è che per mantenere un clima di fiducia (nelle istituzioni e verso i tecnici) questa consapevolezza sul rischio dovrebbe però necessariamente riguardare la dimensione dei saperi esperti e, quindi, quella dei decisori politici.
In questo senso il piano della valutazione (da parte degli esperti) non deve essere confuso con quello della comunicazione del rischio (alla popolazione), questo in funzione della decisione (politica) circa l’approntamento d’interventi di messa in sicurezza e/o di comunicazioni di messa in allerta della popolazione. Ciò in base al fatto che, una volta diagnosticata una situazione di rischio, si deve intervenire riducendo la vulnerabilità e/o l’esposizione. In questo senso si tratta di capire come e quando comunicare valutazioni esperte di rischio, e a chi (alla popolazione? ai decisori?).
Cos’è la carbonatazione?
Il cemento ha la data di scadenza, come lo yogurt
Venendo invece allo specifico del disastro di Genova, mi pare il caso di chiarire che l’evento mi ha colpito particolarmente in quanto qualche anno fa mi sono occupato di questioni legate al cemento, alle cornici culturali che orientano i suoi usi sociali, da una prospettiva dell’antropologia dell’abitare, in merito alla ricostruzione post-sismica aquilana e a un’analisi culturale della tendenza a “com’era dov’era”[7]. In quella circostanza venni a conoscenza del fenomeno della carbonatazione; così a qualche ora dal crollo del ponte Morandi, sullo sfondo di un televisore acceso che ne reiterava insistentemente l’immagine, ho lasciato sul web delle righe dove inquadravo la questione della vulnerabilità del cemento armato nel processo di carbonatazione, non tanto in riferimento alla tragedia specifica appena avvenuta, ma soprattutto pensando allo scenario del patrimonio infrastrutturale italiano; righe che hanno suscitato la tua attenzione, e che riporto per intero:
“Saranno giorni di ricerca di colpevoli, in una gara social al ribasso cognitivo; ma qui la corruzione riguarda, forse prima di aspetti tecnico-politici, anche una faccenda totalmente materiale: il cemento armato. E non si tratta di una questione che resta confinata nell’ingegneria, ma di un fatto sociale totale per l’Occidente, un fatto cioè che investirà a breve tutti gli ambiti del nostro vivere, in modo decisivo. Probabilmente le inchieste appureranno il contributo e il peso di tare costruttive e di manutenzione, ma ponte di Genova, dopo aver svolto il suo dovere per mezzo secolo, è crollato anche perché il cemento armato – l’invenzione con cui abbiamo costruito l’impalcatura della modernità – invecchia. Il cemento armato si è rivelato non il materiale miracoloso ed eterno che immaginava Le Corbusier, ma una bomba a orologeria.
Da poco sappiamo che è tremendamente vulnerabile, lo è alla radice della sua chimica, a causa della carbonatazione: con il tempo il metallo si ossida, aumenta di volume e lesiona il calcestruzzo. Ha la data di scadenza, il cemento armato. Se le strutture in pietra dei romani ci hanno dimostrato di saper durare come il miele, pressoché all’infinito storico, il nostro calcestruzzo armato è più simile al latte; scade abbastanza presto, troppo presto. Certo, c’è cemento armato e cemento armato, come pure negli anni il cemento armato è migliorato; ma questo materiale non dura che qualche decennio, decennio più decennio meno: poco più di nulla di fronte alla storia. Domina lo spazio il cemento armato, ma ha un serio problema con il tempo. Un serio problema che con il tempo sta emergendo. Tutto l’Occidente moderno, quello nato urbanisticamente dopo il secondo dopoguerra con la quantità e la qualità del cemento armato degli scorsi decenni, inizia a diventare, praticamente in blocco, infrastrutturalmente fatiscente: una miriade di viadotti, tutti i palazzi e palazzoni delle cinte periferiche delle grandi e piccole città, tutto.
Il cemento armato è la migliore metafora del nostro rapporto con la modernità: la immaginavamo più solida, la storia ci sta mettendo pochissimo tempo a svelarcela invece assai fragile; questa verità tremenda non riusciamo ad accettarla, così la rimuoviamo e cerchiamo capri espiatori. Ora non conosciamo il peso della carbonatazione in questa catastrofe, ma ponte di Genova è l’inizio: data l’importanza, funzionale e simbolica, della struttura è la prima manifestazione macroscopica di un problema generale di degradazione infrastrutturale. Mentre, a suon di metafore, litighiamo tra chi vuole rinforzare muri e chi vuole costruire ponti, dovremmo pensare a preparare tanti ponteggi. Reali”.
A rileggere ora queste considerazioni mi rendo conto che a mia volta questo discorso va fatto con prudenza, se non altro perché può scivolare verso il rischio di porgere il fianco a semplificazioni e a criminalizzazioni monocausali del cemento armato, che così rischia di trasformarsi in una sorta di capro espiatorio e fare la fine dell’amianto, che è passato nel giro di qualche anno dallo statuto scientifico di materiale miracoloso a quello – ancora più scientifico tanto da rivelare a posteriori la pseudoscientificità della prima convinzione – di materiale mortale (questo tanto per ribadire che bisogna sempre fare attenzione a chi non si accorge che le verità scientifiche hanno meno a che fare con la fissità, l’assolutezza, che con la processualità, la storia).
Per cui, a questo punto, ti chiedo: quali sono i dettagli tecnici di questo processo di carbonatazione? In che misura, da un punto di vista strettamente ingegneristico strutturale, dovremo fare i conti con esso? Dove queste mie considerazioni a caldo sono condivisibili? Dove andrebbero ponderate e corrette? Date le caratteristiche delle infrastrutture italiane, c’è ragione a lanciare un serio allarme? Dove è che si rischia di sfociare nell’allarmismo? Viceversa, un eccesso di titubanza non potrebbe tradursi in un rassicurazionismo con conseguenze nefaste per i prossimi decenni o anni?
I dettagli tecnici della carbonatazione
B. Io credo che il cemento armato sia stato, effettivamente, il materiale miracoloso di Le Corbusier, o di Nervi, altrimenti molta Italia non avrebbe potuto essere costruita. L’errore è stato crederlo eterno!
Purtroppo, il confronto con le opere Romane balza all’occhio; il paragone non è banale, ma non è neppure tecnicamente corretto. Quando si facevano i ponti di pietra non c’erano navi portacontainer che dovevano passarci sotto, le città non erano attraversate da camion da 60 tonnellate, non c’era l’alta velocità. Posare pietra su pietra, per quanto possa essere affascinante, ha permesso di far crescere l’impero Romano, ma sicuramente non farebbe crescere la nostra società del 3° millennio; poi, concordo con te che il fascino del ponte di pietra può essere una chiave di lettura per il problema “durabilità” delle opere in calcestruzzo.
Ogni opera deve essere progettata in funzione della sua vita di servizio, studiandone anche le manutenzioni progressive nel tempo, ed è errato associare a priori la durabilità del materiale con la sicurezza di una costruzione. Opere come il ponte Morandi, progettate 50 o 60 anni fa, erano sotto molto aspetti innovative; a ciò si aggiunge che normative tecniche e flussi di traffico non erano quelli odierni, e anche la conoscenza dei materiali non era quella che abbiamo adesso.
Le moderne normative per le costruzioni esigono che la durabilità dell’opera sia tenuta in conto sin da principio, associandola alla durabilità e scelta dei materiali, e alle progressive manutenzioni pianificate affinché la durabilità stessa sia garantita.
Oggi, se un ponte deve durare 100 anni, tale ipotesi è la prima che entra nelle condizioni di calcolo e verifica e diventa irrilevante ai fini della sicurezza il materiale con cui l’opera sarà realizzata; ciò che cambia saranno solo i diversi piani di manutenzione associati ai diversi materiali. Tutti i materiali sono idonei, purché ben progettati, realizzati e mantenuti; ovviamente poi ogni materiale ha caratteristiche diverse che lo portano a essere più performante su certe tipologie strutturali piuttosto che su altre.
La carbonatazione che tu citi è una delle forme di degrado del cemento armato, molto evidente soprattutto in strutture vetuste e situate in ambienti aggressivi come quelli marini (per via della salsedine); quando il calcestruzzo ha iniziato a svilupparsi questo fenomeno non era così noto, ora ne conosciamo tutti gli aspetti e siamo in grado di gestirlo. Il problema chiaramente rimane per tutte quelle opere (abitazioni o infrastrutture) costruite cinquant’anni fa o più, quando conoscenza e tecnologia non erano quelle di oggi.
In particolare per i ponti, il nostro paese ne ha migliaia in cemento armato con qualche decina di anni sulle spalle; e il problema è molto più politico che tecnico.
Per prima cosa, e ti assicuro che è la parte più difficile, è necessario che sia effettuata una “valutazione di sicurezza”; per fare questa non bastano le foto di un passante che vede dei ferri arrugginiti (ultima moda dei social) ma occorrono tecnici esperti, laboratori di diagnostica e diverse decine di migliaia di euro. Qui non stiamo parlando di Società Autostrade per la quale i ponti sono una fonte di reddito, e che quindi all’interno del quadro economico dovrebbe tenere conto anche della conoscenza e del mantenimento della sicurezza; qui si parla di ponti necessari per la vita in un territorio, e per i quali le Amministrazioni Comunali spesso non recuperare nei piani triennali neppure i soldi necessari per la valutazione della sicurezza appunto, tra l’altro obbligatoria dal 2003
Quando si parla di queste tematiche non vi è una ricetta nè soluzioni semplici. Altro aspetto di cui tenere conto: una volta che sia riscontrata una carenza, occorre intervenire. E intervenire implica montagne di soldi oltre a disagi sociali non indifferenti; non dimentichiamo che operare su un ponte significa spesso separare comunità e territori e creare enormi problemi di viabilità e disagi per lungo tempo. Anche se dal cielo piovessero tanti soldi da regalarci tutti i ponti nuovi, rimarrebbero i disagi per la loro realizzazione.
Purtroppo solo negli ultimi anni le normative si stanno orientando verso modalità virtuose. Si progetta un’opera che dovrà avere una durata di tot anni e se ne prevede un costo. A questo costo si devono aggiungere, già all’origine, le spese di manutenzione costante per fare in modo che l’opera arrivi a termine della sua vita utile con il medesimo grado di sicurezza di quando è stata realizzata. A termine della vita utile occorre fare un’analisi costi benefici e decidere se abbatterla o intervenire per prolungarne la durata.
Concordo comunque con l’ultima parte: il crollo di Genova ha avuto, purtroppo per la gravità del disastro, il merito di accendere prepotentemente il faro su queste problematiche. I crolli di infrastrutture negli ultimi anni sono stati abbastanza frequenti ma molto circoscritti a livello mediatico; il ponte Morandi ha invece mandato un segnale chiaro.
Tornando però all’inizio della nostra chiacchierata, rimango dell’idea che se fossimo cittadini più consapevoli e preparati sarebbe più semplice comprendere certe notizie e sarebbe più difficile fare il giornalista.
Genova: cos’hanno fatto sono i tecnici veri fino al giorno prima?
C. Certo, il problema però qui non sta tanto nell’aver errato a credere il cemento eterno, ma nel fatto che esso a volte si rivela fin troppo effimero, soprattutto in assenza di manutenzione, e di fronte al fatto che il progresso scientifico inesorabilmente evidenzia che quelli che, come accennavo prima, entro gli orizzonti cognitivi di una certa epoca storica potevano apparire come miracoli tecnologici, col senno di poi si scoprono carichi di tare di vario tipo. Inoltre permettimi una provocazione: il giorno dopo il crollo del ponte Morandi tutti esperti: sui social media l’ingegneria strutturale ha vissuto momenti da “Gazzetta dello sport” ai mondiali di Calcio, dove in tutti i bar tutti sono più esperti dell’allenatore della nazionale e sanno, tanto tacitamente quanto rigorosamente a posteriori, cosa andava fatto. Però per uscire dal gioco tragicomico degli “esperti del giorno dopo” bisognerebbe anche chiedersi dove sono e cosa fanno gli esperti, quelli veri, fino al giorno prima, o meglio, perché non fanno, o almeno non fanno abbastanza.
La questione è meno peregrina di quello che potrebbe sembrare in quanto implica altri due concetti chiave dell’analisi del rischio, quello di “periodo d’incubazione della catastrofe” e quello di “nemici invisibili”: le competenze esperte hanno senso solo se messe in gioco prima del verificarsi degli eventi catastrofici, ossia nel periodo d’incubazione della catastrofe, grazie alla capacità cognitivo-interpretativa d’individuare i fattori di rischio che sfuggono al senso comune. Genova dimostra in modo tragicamente empirico che questo non è successo; rivela una carenza che non riguarda solo questioni strutturali ma anche di analisi del rischio, e temo che si possa trattare di un caso tutt’altro che unico.
Adesso, sulla scia di attenzione collettiva prodotta dal crollo del ponte di Genova, nei social media è esploso un flame sulla fatiscenza della rete autostradale nazionale, con particolare enfasi sui viadotti delle autostrade A24 e A25, questa attenzione dal basso è solo isteria collettiva? O rivela specularmente una certa disattenzione da parte dei saperi esperti e dei decisori politici?
B. Credo che entrambe le ipotesi possano essere ritenute valide, e direi che proprio il caso dell’A24 ne è un esempio.
Di certo da metà agosto si sono moltiplicate a dismisura le segnalazioni su infrastrutture “a occhio” non sicure: in sostanza utenti di social armati di cellulare si sono concentrati nel fotografare calcestruzzo ammalorato e ferri arrugginiti appartenenti a ponti in giro per l’Italia. Il giudizio è fatto appunto “a occhio”, senza alcuna valutazione tecnica o consiglio di esperti del settore (ho trovato numerosi casi di giunti di dilatazione che diventavano pericolosissime crepe).
In parallelo, c’è stata sicuramente poca oculatezza nelle parole di quelli che tu citi come “decisori politici”; mi riferisco in particolare al Ministro Toninelli, che il 15 ottobre dichiara “Alcuni piloni dei viadotti della A24 e A25, che ho potuto visionare con i miei occhi, sono in condizioni così degradate da risultare allarmanti”. Premesso che il Ministro delle Infrastrutture e Trasporti è la figura più alta in carica avente titolo per esprimere giudizi sui ponti, è evidente che ogni sua parola in merito è molto pesante e si porta dietro una serie di conseguenze. In questo caso a mio avviso la società Strada dei Parchi si è assunta una grande responsabilità nel mantenere aperta l’autostrada dopo che il Ministro in carica l’ha di fatto dichiarata pericolosa; d’altra parte il suddetto Ministro in carica non ha prodotto alcuna documentazione a supporto della propria affermazione, ma pare si sia fermato a un esame “a occhio” di quelli sopra citati.
Il Ministro: tra inviato di rotocaclo e il commentatore web medio
C. La vicenda del ministro è sorprendente, in quanto un decisore politico apicale si è sostanzialmente accomodato in un habitus sensazionalistico e in fondo de-responsabizzante, tra inviato di rotocalco scandalistico e commentatore web medio, accontentandosi di comunicare senza filtri all’intera nazione una diagnosi, tanto estrema quanto dilettantistica, di rischio. Un comportamento che lascia intravedere una sorta di riflesso condizionato da smarcamento, dove il gridare al disastro imminente pare in qualche modo possa sostituire la concreta, esaustiva e meno plateale pianificazione di interventi di riduzione del rischio concreti, efficienti, estesi e duraturi. Si ha l’impressione che, nel peggiore dei casi, si faccia affidamento più su un eventuale “lo avevo detto”, in oscillazione tra futuro e passato, che su interventi e decisioni, coniugati al presente, di riduzione della vulnerabilità e di diminuzione dell’esposizione.
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La sensazione è stata quella di aver assistito, più che a una politica di messa in sicurezza delle infrastrutture, a una performance in cui si tenta di mettere in sicurezza la propria posizione personale, finanche andando in deroga rispetto al proprio ruolo. Sperando che qualcosa cambi, va notato che al momento abbiamo viadotti dichiarati sostanzialmente in procinto di crollare; che seguitano ad essere percorsi, mentre sono “rafforzati” poco altro che da blandi ripieghi precauzionali e propositi di intervento. Il tutto supportato dalle proteste dei politici abruzzesi che, preoccupati per i danni economici cagionati da un calo della circolazione sugli assi A24-A25, gridano all’allarmismo senza chiedersi se tale atteggiamento possa sottendere un rassicurazionismo consolatorio di fronte all’eventualità tremenda di un disastro – il crollo di un viadotto autostradale – che soprattutto per L’Aquila significherebbe piombare nell’isolamento, e quindi ritrovarsi sostanzialmente in un secondo terremoto.
L’utilizzo del rassicurazionismo
In generale, nei casi di cui stiamo parlando, il rischio si affronta o riducendo la vulnerabilità attraverso la manutenzione o, purtroppo, riducendo la percezione della pericolosità attraverso processi psico-sociali di rimozione collettiva; ossia facendo, magari in modo inconsapevole, rassicurazionismo. Il rassicurazionismo – la tendenza istituzionale a rappresentare dogmaticamente come non pericolose delle situazioni che dovrebbero suscitare molti dubbi – è una strategia istituzionale e probabilmente una necessità biopolitica più pervasiva di quanto possa sembrare[8]. Basti pensare a quello che succede con il climate change, dove una parte consistente della comunità scientifica arriva a negare del tutto l’esistenza di questo fenomeno; dove la scienza si spacca in due, rivelando così il suo vacillare di fronte alla pretesa di incarnare certi sempre umanamente anelati ideali di pura verità e oggettività assoluta, una certa malcelata tendenza a farsi condizionare da fattori politici, ideologici, economici. Temo che qualcosa di simile potrebbe presto riguardare anche questioni di endemica fatiscenza strutturale del cemento armato.
A mio parere sarebbe il caso di uscire dalla prospettiva implicita della rimozione psicosociale delle situazioni di rischio, e farsi carico di una presa di consapevolezza che sensibilizzi nei confronti della necessità di programmi nazionali (e internazionali, ovviamente) di manutenzione. Lo dico anche nella consapevolezza del bisogno di prestare attenzione affinché non si sfoci nell’allarmismo; questo considerando che attualmente tale tendenza è acuita dai mediaweb, dove, in una situazione di perenne sovraccarico d’informazioni, si produce un’ecologia delle notizie in cui il sensazionalismo si rivela quale strategia adattiva vincente nel breve termine, rispetto alla finalità di “stare a galla” nel flusso alluvionale di significati collettivi. Questo almeno per qualche giorno, finché la semiosfera non sarà invasa da una nuova notizia mainstream, che relegherà immediatamente al dimenticatoio l’evento che prima aveva attenzionato chiunque, con tutte le conseguenze del caso.
Quale dovrebbe essere il ruolo del cemento armato?
Aggiungerei anche che il cemento armato è assai più di un insieme di progetti e di realizzazioni: esso è uno degli elementi infrastrutturali fondamentali della modernità: la maggior parte delle persone che si trovano in Occidente, o nelle parti modernizzate del globo, nascono, vivono e muoiono nel cemento armato. Forse in futuro troveremo materiali alternativi, più performanti e sostenibili, non solo per le piccole ma anche per le medie e grandi strutture; ma attualmente, mi pare di capire, dal cemento armato dipendiamo in larga misura.
In tal senso, prendendo in prestito una definizione del celebre sociologo Marcel Mauss, il cemento armato andrebbe considerato alla stregua di un “fatto sociale totale” [9], ossia qualcosa che coinvolge la vita collettiva nella sua interezza, in tutti i suoi aspetti, che è in relazione con tutto, e rispetto a tutto si pone in qualche modo come pre-condizione. Perciò il cemento armato parte dall’ingegneria e arriva alla cultura passando per la società. Per questo penso che la questione della fatiscenza del cemento armato dovrebbe – senza sfociare in demonizzazioni in opposizione a chi ne fa un materiale sacro – diventare centrale nelle agende politiche dei prossimi anni. Anche qui, in definitiva, ricordiamoci che diminuire la percezione del rischio aumenta la pericolosità; ricordiamocene al fine di uscire dalla tentazione del rassicurazionismo, magari come degenerazione originata dalla buona intenzione iniziale di evitare che l’allarmismo contagi l’opinione pubblica.
Insomma, andrebbe pensato un percorso di sensibilizzazione sociale per far comprendere che il cemento armato non è solo un insieme di infrastrutture che, una volta costruite, si prendono cura della nostra quotidianità garantendo una serie di aspetti dell’abitare e del circolare, ma anche qualcosa di cui bisogna prendersi cura, costantemente; qualcosa con cui fare i conti prima che, come è avvenuto a Genova, ci presenti il conto. Mi viene in mente la lezione di Tim Ingold, uno dei più grandi antropologi dell’abitare, che ci fa comprendere che la “forma finale” è, a ben vedere, un’astrazione, un’approssimazione, una convenzione: il costruire è un processo che, lungi dall’iniziare con un progetto preformato e concludersi con un artefatto finito, in qualche modo continua, seppure in modalità e intensità differenti, per tutto il tempo che un ambiente viene abitato[10]; e questo vale anche per il cemento, l’elemento mi pare quali-quantitativamente primario in gran parte degli spazi antropizzati contemporanei.
B. Mi piace questa visione del cemento armato come “fatto sociale totale”, mi sembra una buona sintesi dei concetti che abbiamo trattato nel nostro breve dialogo. Direi a questo punto di chiudere queste note, consapevole che si potrebbe andare avanti ancora a lungo e constatando, devo dire con stupore, che i nostri mondi sono molto più vicini di quanto potessi immaginare.
Note
[a] Antonello Ciccozzi è Professore associato di Antropologia Culturale (Università degli Studi dell’Aquila), tra i suoi principali interessi di ricerca vi è la percezione del rischio da una prospettiva antropologica.
[b] Andrea Barocci è Ingegnere libero professionista, si occupa di strutture e rischio sismico sia in ambito professionale che come componente di Organi Tecnici, Commissioni e Associazioni. Autore, Docente, Blogger.
[1] Per un orientamento di base sulla tematica dell’analisi antropologica del rischio, si possono vedere: M. Douglas, Come percepiamo il pericolo: antropologia del rischio, Milano, Feltrinelli, 1991; E. R. Quarantelli, Disasters: theory and research, Sage Publications, London – Beverly Hills, 1978; A. Oliver-Smith A. (ed), Natural disasters and cultural responses, Dept. of Anthropology, College of William and Mary, Williamsburg, 1986; G. Ligi, Antropologia dei disastri, Roma-Bari, Laterza, 2009.
[2] Si può notare che questa formula è quella attualmente adottata dalla Protezione civile italiana.
[3] In proposito è utile precisare che, muovendoci, appunto, tra ponti materiali e ponti simbolici, nella stesura di questo testo si è optato per un approccio costitutivamente interdisciplinare; a partire dalla scelta espositiva di evitare il co-autoraggio nella forma e nella convenzione stilistica – prevalente in ambito scientifico – della fusione artificiosa di due prospettive nel filo narrativo unico e indistinto della scrittura “a quattro mani”. Al contrario, abbiamo preferito “passarci la palla”; ossia praticare un percorso apertamente alternato e dichiaratamente dialogico. Si tratta in tal senso di “mettersi in gioco” affacciandosi al limite dei propri campi di sapere, per un “approccio di confine”; di prendere seriamente la possibilità di collocarsi di fronte all’alterità disciplinare di un sapere esperto che non è il proprio; e, rispetto a un oggetto d’interesse comune, dire e domandare: “il mio metodo mi suggerisce questo, cosa ne pensi dal tuo punto di vista metodologico?”.
Ciò significa, almeno teoricamente, tracciare un percorso orientato a una qualche convergenza di fondo; ma che anche sappia fare di eventuali divergenze qualcosa di più di un “rumore di fondo” da eliminare dall’esposizione; questo si può fare o proseguendo dalla sintesi di un punto d’incontro, o ripartendo dal concordare più o meno esplicitamente di riconnettersi su un versante della biforcazione restante da ogni passaggio non riuscito, come punto di partenza per un nuovo itinerario. Si vuole in questo modo intendere il confronto interdisciplinare come occasione di arricchimento reciproco in un “gioco di specchi” cogente che possa darsi senza il bisogno dissolvere il processo di “botta e risposta” che sostanzia qualsiasi brain storming efficace. Questo provando a produrre una qualche amplificazione prospettica proprio dall’interrelazione tra diversi campi di sapere, proponendo assunti, elementi, prospettive del proprio orizzonte disciplinare nello sforzo volto a innescare una quale risonanza con uno specialista di un’altra disciplina che, riflessivamente, fa lo stesso.
[4] Si veda in merito: S. Borutti, Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell’Antropologia e della Sociologia, Bruno Mondadori, Milano, 1999.
[5] Cfr.: A. Ciccozzi, Parola di scienza – Il terremoto dell’Aquila e la Commissione Grandi Rischi: un’analisi antropologica, DeriveApprodi, Roma, 2013; A. Ciccozzi, Il terremoto dell’Aquila e il processo alla Commissione Grandi Rischi: note antropologiche”, in, Antropologia applicata, a cura di, A. L. Palmisano, Pensa editore, Lecce, 2014; A. Ciccozzi, “Forms of truth in the trial against the Commission for Major Risks- Anthropological notes”, in Archivio Antropologico Mediterraneo online, a cura di, M. Benadusi e S. Revert, anno XIX, no. 18 (2), 2016.
[6] Questo discorso rimanda a un arco lungo di riflessioni che, limitatamente agli autori fondamentali, tracciano un arco che arriva a Latour, partendo da Kuhn e Popper e passando per le posizioni radicalmente critiche di Feyerabend. Come principali testi di riferimento si pensi a: T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1969; K. Popper, Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza, Einaudi, Torino, 1969; K. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1985; P. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1979; P. Feyerabend, La scienza in una società libera, Feltrinelli, Milano,1981; P. Feyerabend, I limiti della ragione, Il Saggiatore, Milano, 1983; P. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Laterza, Roma-Bari,1993; B. Latour, Il culto moderno dei fattici, Meltemi, Milano, 2017; B. Latour, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Cortina Raffaello, Torino, 2000; B. Latour, Cogitamus. Sei lettere sull’umanesimo scientifico, Il Mulino, Bologna, 2013; B. Latour, Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano, 2015.
[7] Cfr.: A. Ciccozzi, “«Com’era dov’era» Tutela del patrimonio culturale, sicurezza sismica degli edifici all’Aquila”, in, Etnografia e ricerca qualitativa, n°2, Il Mulino, Bologna, 2015.
[8] Ho discusso la tematica del “rassicurazionismo” nei testi che ho prima citato sul processo alla Commissione Grandi Rischi.
[9] Cfr.: M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 1965.
[10] Cfr.: T. Ingold, Ecologia della Cultura, Meltemi, Milano 2016.
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