Un più ampio coinvolgimento dei cittadini nel processo di scelta in relazione alle Grandi Opere (e Grandi Eventi), in un’ottica di più accentuata condivisione, verso la tutela generale del bene comune, con il débat pubblic e i concorsi di progettazione considerati passaggi chiave per democratizzare il percorso di realizzazione delle opere pubbliche e conferire nuovamente giusta dignità al progetto come atto pubblico. È solo uno dei concetti espressi da Ermete Realacci, presidente della Presidente della Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera dei Deputati, raggiunto telefonicamente dalla nostra redazione per una intervista che ha toccato vari argomenti (Grandi Eventi, infrastrutture nazionali, legge delega per la riforma degli appalti) connessi tra loro dal grande pilastro tematico rappresentato dai lavori pubblici, fulcro del dibattito lanciato sulle pagine di Ediltecnico in queste settimane.
Marco Brezza: Un problema emergente in questi anni è il seguente: i cittadini percepiscono il Grande Evento (e il processo di edificazione della Grande Opera) come occasione e nucleo di incubazione di “malaffare”, o nella migliore delle ipotesi, come edificazione sterile di fatiscenti cattedrali nel deserto. Tutto ciò dà origine agli ormai celebri movimenti NO (NO TAV, NO triv, NO Expo, ecc.): movimenti che al netto di eccessi evidenti, non vanno liquidati come meri fenomeni di isteria collettiva, e le cui istanze vanno analizzate con attenzione. In questo senso, in che modo il mondo della politica e delle istituzioni può riconquistare un ruolo autorevole nel coordinare l’organizzazione di questi eventi senza far balenare nella mente del cittadino l’idea della corruzione e del malaffare (rappresentazione ormai legata in maniera pervicace alla figura del politico nell’immaginario collettivo)?
Ermete Realacci: A mio modo di vedere risulta, in prima battuta, necessaria una battaglia contro l’ideologia delle Grandi Opere. La Grande Opera non si configura come una cosa positiva o un “bene” in sé: l’esigenza reale è quella dell’Opera Utile, non necessariamente della Grande Opera.
Due esempi storici in questo senso eloquenti. Da una parte persino la Tour Eiffel vide una forte opposizione alla sua installazione agli inizi del ‘900. Eppure i risultati di quell’opera sono ben presenti sotto gli occhi di tutto il pianeta. Dall’altro, mi viene in mente l’Autostrada del Sole, di cui l’anno scorso si sono celebrati i 50 anni dall’inaugurazione: un’opera enorme realizzata in 8 anni, all’inizio degli anni ‘60. A nessun venne in mente di dire che quell’opera era inutile. Era certamente un’altra Italia, in pieno boom economico. Ma la chiave, in quel contesto, risiedeva nel fatto che tramite quell’opera le persone potevano attraversare l’Italia in tempi rapidi: si trattava di un’opera incredibilmente utile, sotto ogni punto di vista.
Insomma, per rispondere alla sua domanda, il punto di partenza giace nel seguente concetto: riacquisire una base comune e condivisa per effettuare le scelte relative a quali opere portare avanti. A mio modo di vedere esiste un problema di “visione” in materia. La Legge Obiettivo del 2001 doveva essere nei progetti e negli auspici iniziali una sorta di “acceleratore” di processi, ma si è presto trasformata in un “monstre” di 400 opere, di cui solo l’8% è stato effettivamente realizzato fino ad ora. Molte di queste opere non erano necessarie al paese, non erano effettivamente utili (un esempio palese in tal senso è l’autostrada BreBeMi). Di alcune si diceva che si sarebbero finanziate da sole: non era vero.
La sensazione diffusa di malaffare percepita dai cittadini è un qualcosa di sicuramente fondato: insomma non è un mera sensazione ma è una constatazione strutturata nella realtà. Fino ad oggi le opere sono state spesso aggiudicate sulla base del solo progetto preliminare: in questo modo si apre spazio alla truffa della “variante d’opera”. L’opera viene aggiudicata al massimo ribasso, poi i costi lievitano in maniera inquietante nel corso dei lavori. La figura del direttore lavori una volta era il vero e proprio garante per il pubblico. Oggi si è trasformato in un dipendente dell’impresa costruttrice.
M.B.: Ma quali azioni sono necessarie per correggere tali storture?
E.R.: Il nucleo centrale per migliorare il processo è la selezione delle opere da portare avanti. È necessario rivedere le norme: l’eccessiva proliferazione di queste ultime ha condotto ad un sistema opaco in cui lavorano troppo gli avvocati e poco gli ingegneri, una vera e propria contraddizione in termini se si parla di opere pubbliche. In questo senso tutta la legge delega per la riforma degli appalti, su cui si è lavorato negli ultimi mesi, si orienta nel senso di ridare qualità e centralità alla progettazione. Senato e Camera condividono a pieno questa considerazione: per ripartire, il mercato dei lavori pubblici ha bisogno anzitutto di buoni progetti e di progettazione di qualità. È una priorità forte che il legislatore pone al centro della legge.
Uno dei punti di partenza in questa direzione risiede nella stesura di misure più semplici, certe. Nel Codice Appalti abbiamo proposto la procedura del débat public, un momento davvero importante: una vera e propria apertura a istituzioni e gruppi di cittadini, decisiva per il corretto andamento di tutto il processo.
M.B.: In questo senso non può non essere citata la proposta di Francesco Rutelli in materia di Infrastrutture e Grandi Eventi che ha aperto il nostro dibattito: “Formare un Programma nazionale di ammodernamento trasparente e sostenibile delle nostre città al fine di evitare la sindrome dell’ultimo minuto, che ha riguardato EXPO e, oggi, il Giubileo romano. A livello pratico si pensa a un parco progetti prioritari, predisposto dagli uffici pubblici con la collaborazione di progettisti selezionate con gare pubbliche, da aggiornare periodicamente secondo le esigenze in cambiamento”. Cosa ne pensa di tale proposta? E in quale modo dovrebbe essere messa in pratica a suo parere? Oppure come potrebbe essere integrata?
E.R.: La proposta di Rutelli è interessante e ragionevole: selezionare i progetti è il primo passo per rendere il processo efficiente ed efficace. Il passo successivo, altrettanto importante, si sostanzia nell’attività di connessione, ovverosia di collegamento del progetto con una idea di città e di comunità. In questo senso l’esempio in Italia arriva dalla città di Milano: oggi Milano è più forte di Roma. Il motivo? C’è una società civile fatta di cittadini e imprese interessate e partecipi del governo della città (un esempio palese è ciò che è successo il giorno dopo l’inaugurazione dell’Expo, con i cittadini in strada a sistemare la città devastata dai manifestanti). Roma ha in questo senso alcuni problemi.
Pertanto la procedura da portare avanti è la seguente: in primo luogo selezionare un parco progetti. Successivamente è assolutamente necessario un coinvolgimento della città, nell’ottica della condivisione forte di un destino comune.
In tale direzione bisogna segnalare una misura concreta inserita lo scorso autunno nello Sblocca Italia proprio ad opera mia e del ministro Delrio: mi riferisco all’art. 24 (“Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio”) che sta avendo uno sviluppo concreto molto interessante in diverse piccole città, ma anche in grandi realtà (ad esempio Milano e Bari). Si tratta dell’incarnazione concreta del concetto di “sussidiarietà organizzata”: i cittadini si aggregano per la presentazione di progetti individuati in relazione al territorio da riqualificare, concernenti le attività di pulizia, manutenzione, abbellimento di aree verdi, piazze, strade o interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In relazione a tali interventi, i comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere. Una evidente esemplificazione di una virtuosa connessione tra cittadini ed esigenze della città.
M.B.: A proposito del problema della “legacy” dei grandi eventi, ovverosia dell’eredità che tali avvenimenti lasciano a livello concreto di infrastrutture sul territorio: si sa con certezza cosa succederà dopo l’Expo? In quale modo le infrastrutture edificate verranno riconvertite per un utilizzo ordinario nel post evento? Ma soprattutto: in quale modo può essere affrontato dalle istituzioni e dalla politica il problema della “legacy” a livello organico? La chiave di tutto sembrerebbe transitare anche da una attenta valutazione “ex ante” della questione, senza affrontare il tutto “ex post”, nelle forme trafelate della “emergenza”. Ma questo si configura certamente alla stregua di un proverbiale uovo di Colombo. Oppure è un aspetto meno scontato di quello che si può pensare?
E.R.: Il concetto espresso nella domanda non si configura come un’ovvietà, non deve essere dato per scontato. L’attività di pianificazione “ex ante” in ordine all’eredità che tali avvenimenti lasciano sul territorio è fondamentale. I Grandi Eventi devono essere pensati anche per quello che succederà al loro termine. In questo senso per ora non mi pare di ravvisare una linea univoca per la gestione del “post Expo” a Milano. Mi sembra tuttavia che si stia lavorando nella direzione corretta con lo spirito giusto. Di più non posso dirle al momento.
Mi preme, tuttavia, a questo riguardo sottolineare il concetto di “legacy” immateriale, un’eredità importante quanto quella materiale a livello di infrastrutture. L’Expo è, a mio modo di vedere, un grande evento popolare, un momento in cui intuire pezzi di futuro. È interessante in questo senso citare le parole del grande sociologo Zygmunt Bauman, il quale, venuto in visita all’Expo di Milano, è rimasto colpito dalla quantità di bellezza presente in maniera diffusa nel nostro paese: un susseguirsi di meraviglie poste a brevi distanze tra loro. Qualcosa che negli altri paese è molto difficile che si verifichi. Questo evento deve essere un monito positivo capace di mettere in evidenza le potenzialità ed i talenti dell’Italia.
Inoltre colgo l’occasione per una riflessione finale prendendo come pretesto le dichiarazioni di Landini di un paio di settimane fa (“Non andrò all’EXPO, si tratta di un luogo parecchio discutibile, sia per i tanti scandali che hanno accompagnato la gestione dell’area e la costruzione degli impianti, sia per le condizioni di lavoro al suo interno” ndr).
M.B.: Ovvero?
E.R.: La CGIL nasce nel 1906 in un periodo storico difficile per il paese (quello delle grandi mobilitazioni sociali), e vede nella prima Esposizione Universale di Milano (svoltasi proprio in quell’anno) un momento fondamentale, in cui intuire quei “brandelli”, quelle “porzioni” di futuro. Il sindacato in quell’istante decide di voler far parte di quella sorta di “intuizione di avvenire” organizzando mense popolari per invitare i ceti più umili (tendenzialmente i ceti operai) alla manifestazione. Questo è il senso di un grande evento come l’Expo: un momento di intuizione del futuro, in cui tutti sono tenuti a dare il loro contributo, senza moti di esclusione o prese di posizione aprioristiche.
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