Se il committente di lavori privati vuole avvalersi della garanzia per vizi e difformità, secondo quanto previsto dal Codice civile (art. 1667), non può limitarsi a contestare all’appaltatore difetti in maniera generica e non circostanziata.
È quanto emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione (seconda sezione civile) 12 novembre 2013, n. 25433 che specifica anche come, nel caso l’esecutore dei lavori dovesse pure fornire risposta alle lagnanze del committente sulla qualità del lavoro eseguito, questo non si configurerebbe come un’ammissione di colpa e non avrebbe, dunque “alcuna valenza ricognitiva non essendo ipotizzabile una ricognizione di fatti incerti ed indeterminati ai fini dell’assunzione di un impegno giuridico”.
In sostanza, dicono i giudici della Suprema Corte, il committente privato che si lamenta genericamente di “lavori eseguiti male”, di “qualità scadente” e di altri vizi non specifici, non può invocare la protezione offerta dall’art. 1667 del codice civile che tutela, appunto, chi riceve un’opera che presenta vizi e difformità rispetto a quanto concordato.
Per mettersi al riparo da eventuali rifiuti, da parte dell’appaltatore, di rimediare a errori o vizi nell’opera, il committente deve inserire nella denuncia una descrizione, almeno sommaria (ma non generica), dei difetti rilevati.
Ricordiamo che l’art. 1667 del codice civile prescrive che il committente debba, a pena di decadenza, denunciare all’appaltatore le difformità o i vizi entro 60 giorni dalla scoperta. La denuncia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati.
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