Ambienti confinati: sono ovunque intorno a noi

Davide Galfrè 01/02/18

Ambienti non ideati e non realizzati per la presenza dell’uomo, con grosse difficoltà di movimento ed enorme scomodità nell’uscita, con aria viziata e rarefatta, inquinata e caratterizzata dalla quasi totale assenza di ossigeno o comunque scarsa ventilazione. Sono gli ambienti confinati, spazi che spesso diventano trappole mortali, per come sono definiti nella normativa italiana.

Parlare di sicurezza nei luoghi di lavoro dopo quanto successo nelle passate settimane è pesante. Ma certo non si può più aspettare ancora, pur utilizzando la massima sensibilità possibile (che comunque non sarà ancora abbastanza). Gli ambienti confinati, come già accennato, sono tutti quei luoghi non idonei per l’attività umana, non progettati e realizzati perché potesse svolgersi all’interno attività alcuna, con ricircolo e ricambio d’aria scarso o nullo, difficoltà di uscita una volta che vi si è all’interno.

Ambienti confinati, manca un orientamento

Nell’ambito lavorativo, gli incidenti negli ambienti confinati sono i più pericolosi, fatali a dirla tutta. Le statistiche sono impietose: gli incidenti che accadono sono mortali e comprendono quasi sempre più persone. Gli ambienti confinati necessitano di maggiore studio e attenzione e certo non sono possibili grovigli illeggibili e incomprensibili di leggi in materie di minore importanza mentre per la totale assenza di insegnamenti e restrizioni normative i lavoratori perdono la vita sul posto di lavoro. Ciò non significa che ci siano materie legislative di serie A o serie B o che il Testo Unico 81/2008 sia da rivedere, anzi, significa che si consta una pressoché totale assenza di qualsivoglia riferimento che fornisca una traccia a chi si trovi a lavorare con ambienti pericolosi, in probabile assenza delle condizioni idonee per la normale respirazione umana.

L’unica norma emanata in materia è il Decreto 177/2011 (a integrazione dell’allegato IV del T.U. 81/2008, punto 3) che ha iniziato un percorso rimasto però ancora incompiuto: quello che porta alla corretta informazione di tutti i lavoratori e della popolazione in generale sulla pericolosità degli ambienti confinati. Potrà sembrare un argomento distante, ma la verità è che intorno a noi ne esistono moltissimi esempi senza che si vadano a ricercare gli immobili prettamente industriali o artigianali. Vasche di liquame, vasche di raccolta degli spurghi abitativi, cisterne, bomboloni del GPL, benzina o altri gas o liquidi, botti per la fermentazione alimentare (vino, lievito, farine), silos, tubazioni sotterranee sono tutti esempi di luoghi o attrezzature che si possono trovare tutto intorno a noi, da una zona industriale ad una agricola o ancora in zone periferiche o isolate dove le abitazioni non sono servite dalla pubblica fognatura.

Ambienti confinati: compiti di impresa e lavoratori

Nel nostro ordinamento giuridico si prevede che per lavorare in tali ambienti serva una precisa abilitazione e una accurata organizzazione dell’impresa, con almeno il 30% di personale con esperienza almeno triennale in tale ambito lavorativo, con situazioni contrattuali stabili (tempo indeterminato). L’impresa deve provvedere alla adeguata sorveglianza sanitaria e alla fornitura dei Dispositivi di Protezione Individuali necessari per lo svolgimento dell’attività. Inoltre tutte le maestranze impiegate devono essere debitamente informate dalla committenza sulle caratteristiche dell’ambiente in cui opereranno e tale prescrizione deve avvenire per la durata di almeno un giorno (fatto piuttosto particolare poiché non si può ricondurre alla durata di un giorno l’informazione dovuta per qualunque caso lavorativo). Le attività devono inoltre esser organizzate per ridurre al minimo, o eliminare, i rischi e con le previsioni di eventuali fase critiche di rischio elevato e di soccorso da attuare in coordinamento con il servizio sanitario nazionale d’emergenza o i Vigili del Fuoco.

Più formazione per il settore edile: l’elettricista maldestro

Ora, bisognerebbe probabilmente fare in modo che i lavoratori del settore edile siano più informati su tali situazioni di pericolo, quand’anche lavorino per un’impresa non abilitata allo svolgimento dell’esame attività negli ambienti confinanti, quanto meno al fine di poter riconoscere questi ultimi con gli annessi pericoli. A giustificazione di ciò si pensi a un semplice esempio: la rottura di parti elettriche presenti all’interno di una cisterna in acciaio inox per la fermentazione e conservazione dei prodotti vinicoli (una ventolina che permette di miscelare il vino o un marchingegno elettronico che misura temperatura o altri fattori). A eseguire la riparazione in loco potrebbe esser un elettricista qualunque, infilando il busto all’interno della cisterna per poter operare. Quasi nessun elettricista ha l’abilitazione ad operare in ambienti confinati poiché quando mai un elettricista pensa di dover lavorare in un ambiente confinato?! Ma nell’esempio in questione il busto viene completamente infilato all’interno di una cisterna senza neanche sapere che qualità di aria vi si trova all’interno. Per un lavoratore in tal caso è fondamentale almeno riconoscere il pericolo e agire di conseguenza con delle verifiche prima di addentrarsi per la riparazione o sospendere momentaneamente la lavorazione in attesa di maggiori informazioni sulla cisterna.

Le verifiche necessarie sono quanto meno sulla quantità di ossigeno presente. Per la respirazione umana è necessario che ne sia presente almeno una quantità pari al 17% (minimo livello vitale), anche se alcuni studi presentano valori più alti, almeno del 19%, anche in virtù del fatto che durante un’attività lavorativa il consumo di ossigeno è maggiore. In ogni caso le precauzioni non sono mai troppe. Devono esser presenti aperture di accesso con dimensioni non inferiori a 30×40 centimetri di larghezza, l’impossibilità del subappalto ed altre prescrizioni contenute anche nell’Allegato 4 al T.U. 81/2008 al punto 3) e nel DPR 177/2011. Tutto ciò deve esser eseguito non solo quando si è riconosciuto l’effettivo pericolo, ma anche quando non è possibile escluderne la potenzialità. Il più delle volte però il pericolo non viene tempestivamente riconosciuto e anche la fase dei soccorsi non viene eseguita in modo sicuro per i soccorritori.

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Conclusioni

In tutto questo quadretto sembrerebbe quanto mai opportuno obbligare nei vari corsi di formazione e nella redazione dei Documenti di Valutazione dei Rischi (che non devono rappresentare un semplice incartamento burocratico) la valutazione della possibilità di trovarsi davanti ai pericoli trattati nell’articolo, con la speranza che si possano limitare sempre di più quegli incidenti che sarebbero evitabili con una buona informazione preventiva e con metodi operativi che aiutino la respirazione dei lavoratori, evitando altresì di trascinare nel rischio gli eventuali soccorritori, nei cosiddetti “incidenti a grappolo” di cui non si vorrebbe certo parlare.

Immagine in apertura: testo-unico-sicurezza.com

Davide Galfrè

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