Una recente sentenza della Cassazione (n. 13449 del 30 giugno 2016) stabilisce un importante principio in materia di distanze legali: per le canne fumarie esiste una presunzione di pericolosità che impone la costruzione delle stesse a una distanza di sicurezza dalle proprietà contigue, anche in assenza di regolamenti edilizi comunali specifici.
L’art. 890 del Codice Civile dispone che “Chi presso il confine, anche se su questo si trova un muro divisorio, vuole fabbricare forni, camini, magazzini di sale, stalle e simili, o vuol collocare materie umide o esplodenti o in altro modo nocive, ovvero impiantare macchinari, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza“.
Nel caso preso in esame, la Corte territoriale ha evidenziato che i vigenti strumenti urbanistici non prevedevano una distanza orizzontale minima tra le canne fumarie e le proprietà altrui.
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Quindi, la corte ha affermato che “il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall’articolo 890 C.C., nella cui regolamentazione rientrano anche i comignoli con canna fumaria, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima, mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha una presunzione di pericolosità relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che, mediante opportuni accorgimenti, può ovviarsi al pericolo od al danno del fondo vicino”.
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In conclusione, la Cassazione ha accertato che , “alla luce della lacuna contenuta nel regolamento edilizio locale, dovesse essere imposto un arretramento della canna fumaria per scongiurare ogni pericolo per il fondo confinante”. Neanche l’installazione di accorgimenti con funzione di separazione avrebbe risolto il problema, risultando inidonea ai sensi dell’art. 890 C.C.
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