La sottile linea rossa tra università e mondo del lavoro: è su questo ciglio delicato che si addensano alcune riflessioni emerse i questi giorni di agosto su ingegneri e libere professioni tecniche.
In primo luogo affiorano le tendenze fotografate da una ricerca del Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri che certificano la crescita dei laureati in ingegneria ed il contemporaneo fenomeno dell’abbandono universitario: si configura infatti come una composizione in chiaroscuro quella dipinta dal Centro Studi del CNI che nello studio “Formazione 2014” ha analizzato i dati relativi ai laureati italiani, focalizzando la riflessione sugli studenti in ingegneria.
Nel 2013 hanno conseguito una laurea di primo o secondo livello nell’area ingegneristica 52.124 studenti, contro i 51.397 del 2012 (+1,4%) con un contestuale aumento della componente femminile (le neolaureate in ingegneria nel 2013 sono state oltre 16mila, circa il 31% del totale).
Le note dolenti evidenziate dal Centro Studi fanno riferimento al fenomeno dell’abbandono universitario. Prendendo in esame gli immatricolati dell’anno accademico 2007-08 nei settori di ingegneria civile e ambientale, dell’informazione e industriale, a distanza di sei anni appena il 41% ha conseguito il titolo triennale, il 9,8% non ha completato ancora l’iter formativo e addirittura il 49,2% ha cambiato corso di laurea o abbandonato del tutto gli studi. Di fatto, la metà di coloro i quali hanno intrapreso gli studi ingegneristici non arriva nemmeno al titolo triennale, con un tasso di abbandono registrato nei corsi di laurea in ingegneria che si uniforma in linea di massima con quello riscontrabile nelle altre tipologie di studi. In questo senso una riflessione emerge con forza: la riforma universitaria del 1999, che si era riproposta di abbreviare i tempi di conseguimento del titolo di studio con la formula del 3+2, ha sostanzialmente fallito nel suo obiettivo principale.
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Altra riflessione interessante (ed amara) sopraggiunge grazie alle parole di Luigi Ronsivalle, Presidente del Centro Studi CNI: “Il mancato conseguimento della laurea di primo livello nei tempi previsti attesta il sostanziale fallimento della riforma universitaria che avrebbe dovuto sfornare ordinariamente laureati di 22-23 anni, in grado di cimentarsi subito con il mondo del lavoro. Oggi ci troviamo con laureati prevalentemente magistrali, più vicini ai trenta che ai vent’anni, con titoli di studio che non consentono gli sbocchi lavorativi sperati, a causa delle mutate condizioni economiche”.
In linea di continuità con tali riflessioni si pone la notizia apparsa sui quotidiani questa settimana in merito allo smarrimento di fascino da parte delle libere professioni sui giovani. I dati sono eloquenti: 10 anni fa a iscriversi agli Albi erano stati in 74mila, nel 2013 (ultimi dati disponibili) non hanno raggiunto i 50mila, con un calo violento del 33%. Uno degli effetti della crisi che ha squarciato il paese in questo periodo. Concentrando l’attenzione sui dati afferenti alle professioni tecniche, emerge certamente che la formazione universitaria troppo teorica è il primo ostacolo per molti laureati in fase di abilitazione. Tra questi gli architetti, che in dieci anni hanno perso il 36% degli abilitati. In tale direzione non possono non essere citate le dichiarazioni di Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti: “Siamo una delle poche professioni per le quali il tirocinio non è ancora obbligatorio, nonostante noi lo chiediamo a gran voce”. Per molti la perdita di attrattività inizia sempre prima, come per gli architetti stessi, decimati purtroppo dal blocco dell’edilizia: “Quest’anno per la prima volta – prosegue Freyrie – le iscrizioni ai test d’ingresso per architettura sono dimezzate rispetto all’anno scorso”.
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