I gazebo stagionali non sono opere precarie: serve il permesso di costruire

È lunedi, immagino che tutti ve ne siate accorti. E come ogni lunedì, ecco la nostra selezione delle massime di alcune sentenze sull’edilizia e l’urbanistica, pubblicate la scorsa settimana. Gli argomenti oggetto delle pronunce sono: gazebo di rilevanti dimensioni per attività commerciali; distanze minime, sopraelevazioni; annullamento del permesso di costruire: applicabilità temporale del limite dei 18 mesi; prescrizione degli oneri concessori; verifiche del Comune per il rilascio del permesso di costruire.

Gazebo stagionali per attività commerciali

Estremi della sentenza: TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, sent. 13 marzo 2017 n. 409
Massima: Un gazebo stagionale di 110 mq. utilizzato per attività commerciale non è un’opera precaria e richiede il permesso di costruire

 

Un gazebo stagionale di 110 mq. utilizzato per attività commerciale deve considerarsi un manufatto non precario, ma funzionale a soddisfare esigenze permanenti, idoneo ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie. Il manufatto non precario (gazebo, dehor o chiosco) non è deputato a un uso per fini contingenti ma è destinato a un utilizzo reiterato nel tempo in quanto stagionale.

L’opera considerata precaria, per cui non obbligatorio il permesso di costruire, è caratterizzata da un uso specifico e temporalmente limitato e non dalla stagionalità, che non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti ma permanenti nel tempo (in tal senso: Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 3 giugno 2014, n. 2842; sez. IV, sent. 22 dicembre 2007, n. 6615).

Sotto tale aspetto, per le sue caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del regime temporale della relativa utilizzazione il gazebo è riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1 dell’art. 3 del Testo Unico Edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001), a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.

Al riguardo, giova qui richiamare il condiviso orientamento secondo cui non possono comunque essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 3 giugno 2014, n. 2842; sent. 12 febbraio 2011, n. 986; sez. V, se-nt. 12 dicembre 2009, n. 7789; sent. 24 febbraio 2003, n. 986; sent. 24 febbraio 1996, n. 226).

Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità dell’installazione di un gazebo destinato ad occupare circa 110 mq. conferisca al manufatto nel suo complesso il carattere di “temporaneità”, atteso il carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di somministrazione (in tal senso: Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 3 giugno 2014, n. 2842; sez. IV, sent. 23 luglio 2009, n. 4673).

Distanze minime per le sopraelevazioni

Estremi della sentenza: TAR Campania, Napoli, sez. VIII, sent. 14 marzo 2017 n. 1465
Massima: Le norme sulle distanze minime si applichino anche alle sopraelevazioni

 

È da evidenziare il carattere di assolutezza e di inderogabilità delle prescrizioni dettate con il D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, in tema di distanze minime tra i fabbricati.

Le stesse hanno carattere pubblicistico e inderogabile e vincolano anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici; in particolare, quella che prescrive la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti ha carattere di assolutezza ed inderogabilità e risulta dalla citata fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli organi urbanistici locali (TAR Toscana, sez. III, sent. 22 giugno 2004, n. 2289), rendendo illegittima ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo, sì da essere consentita alla p.a. solo la fissazione di distanze superiori (TAR Abruzzo, Pescara, sent. 9 gennaio 2006, n. 11).

Quanto al rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest’ultima (Cass. civ. sez. II, sent. 11 maggio 2016, n. 9646 e sent. 11 giugno 2008, n. 15527).

Annullamento del permesso di costruire: limite dei 18 mesi

Estremi della sentenza: TAR Basilicata, sent. 16 marzo 2017 n. 200
Massima: Il termine di 18 mesi per l’annullamento del permesso di costruire si applica ai provvedimenti di annullamento emanati dopo il 28 agosto 2015

 

L’art. 21 nonies, comma 1, L. n. 241/1990, nella parte in cui statuisce il termine di 18 mesi dall’adozione del provvedimento per l’annullamento del permesso di costruire, si applica ai provvedimenti di annullamento in autotutela emanati dopo l’entrata in vigore di tale norma, ossia dopo il 28.8.2015, in quanto la norma in esame è sicuramente innovativa e non interpretativa della previgente disposizione, che contemplava genericamente ed esclusivamente il “termine ragionevole”, e perciò non è retroattiva, ed anche perché fa decorrere il termine per l’esercizio del potere di autotutela dall’adozione del provvedimento illegittimo da annullare.

Prescrizione degli oneri concessori

Estremi della sentenza: TAR Piemonte, sez. I, sent. 13 marzo 2017 n. 353
Massima: La prescrizione per la riscossione delle somme dovute a titolo di oneri concessori è decennale; la prescrizione della sanzione irrogata per ritardato pagamento degli oneri è quinquennale.

 

La prescrizione per la riscossione delle somme dovute a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione decorre dalla data di emanazione del provvedimento concessorio (cfr.: TAR Sicilia, Palermo, sez. II, sent. 18 gennaio 2012 n. 126) ed è decennale.

Ai sensi dell’art. 28, l. 24 novembre 1981, n. 689, applicabile ex art. 12 della stessa legge a tutte le sanzioni amministrative di tipo afflittivo, il termine di prescrizione della sanzione irrogata per ritardato pagamento del contributo dovuto per gli oneri di urbanizzazione e per il costo di costruzione è di cinque anni, e decorre dal giorno in cui è stata commessa la violazione.

Leggi anche Non è retroattivo l’adeguamento degli oneri di urbanizzazione

Verifiche del Comune per il rilascio del permesso di costruire

Estremi della sentenza: TAR Lazio, Roma, sez. II bis, sent. 13 marzo 2017 n. 3432
Massima: In sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio il Comune deve verificare il rispetto da parte dell’istante dei presupposti privatistici effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati

 

Per un condivisibile orientamento della giurisprudenza, in sede di rilascio del permesso di costruire, segnatamente, in sede di esame sull’effettiva disponibilità giuridica del bene oggetto dell’intervento edificatorio, sussiste bensì l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei presupposti privatistici, ma soltanto alla condizione che tali presupposti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei presupposti medesimi, senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici (v., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 28 settembre 2012, n. 5128; sent. 20 dicembre 2011, n. 6731; set. 21 novembre 2016 n. 4861; sez. IV, sent. 4 maggio 2010, n. 2546).

Non vi è, infatti, da parte dell’Amministrazione la necessità di procedere a una particolare istruttoria civilistica, rientrando la presenza di eventuali limiti alla proprietà o la supposta pretesa di lesioni di diritti soggettivi nell’ambito delle controversie tra privati, che gli stessi privati potranno difendere nelle opportune sedi, senza riflessi sulla legittimità degli atti autorizzatori dell’esercizio dello “ius edificandi”.

Com’è noto, il titolo abilitativo viene rilasciato con salvezza dei diritti dei terzi, in base all’articolo 11, comma 3, del Testo Unico Edilizia (DPR n. 380/2001), in quanto la funzione del permesso di costruire è quella di rimuovere un ostacolo alla libera esplicazione del diritto ad edificare del privato, per cui esso definisce unicamente i rapporti tra l’amministrazione e il privato richiedente in ordine allo svolgimento dell’attività oggetto del provvedimento, ma non ha efficacia nei confronti dei terzi.

Ne consegue che il terzo che si ritenga danneggiato dall’esecuzione dell’opera, nonostante il rilascio del permesso di costruire, ben può agire ricorrendo al giudice ordinario per la tutela delle proprie situazioni di diritto soggettivo. Ciò anche nell’ipotesi in cui l’estensione delle opere realizzate possa essere stata determinata, indirettamente, dall’esercizio del diritto di proprietà su un’area non interamente appartenente ai costruttori.

In collaborazione con www.studiolegalepetrulli.it

Redazione Tecnica

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