Il terribile terremoto (il magnitudo registrato fu di 5,9 della scala Richter) de L’Aquila del 2009 è stato un susseguirsi di eventi sismici, iniziati nel dicembre del 2008.
Il bilancio definitivo parla di 308 vittime, oltre 1600 feriti e oltre 10 miliardi di euro di danni stimati.
Dopo il sisma rimasero senza casa 67.456 persone; oggi – come rivelano gli ultimi dati rilasciati dal Governo – 33.476 sono rientrate nelle proprie abitazioni, e 21.941 hanno un alloggio grazie al sostegno dello Stato (leggasi “Progetto Case”, affitti concordati e fondo immobiliare).
Il ministro Fabrizio Barca, che ora coordina gli interventi del governo, da Capo Dipartimento dell’Economia, finanziò uno studio realizzato dall’Ocse, presentato a metà marzo, nel quale sono illustrati una serie di aspetti.
I 10,6 miliardi di euro stanziati per la ricostruzione delle località colpite sono stati cosi suddivisi: 2,9 miliardi sono stati già spesi per l’emergenza (833 milioni per i 4.500 appartamenti del “Progetto Case”., le cosiddette New Town che ospitarono 15 mila persone); gli altri 7,7 miliardi dovrebbero coprire i costi per la ricostruzione dell’Aquila (di cui 3,8 miliardi di euro per gli interventi di edilizia privata nel centro storico) e degli altri paesi colpiti. Fondi, quindi, che dovrebbero servire anche a far rinascere il capoluogo abruzzese attraverso la valorizzazione e lo sviluppo di settori quali quello della cultura, dell’ambiente e delle tecnologie.
Ma nello studio, inoltre, ci sono alcuni passaggi che preoccupano in quanto si auspica “un rinnovamento urbanistico” teso a modificare senza limiti l’interno degli edifici, salvaguardando, ma anche “migliorando”, solo le facciate storiche. Con la proposta di bandire un concorso internazionale di architettura.
E il timore, da parte dei cittadini aquilani che hanno scelto di restare nonostante i disagi e le sofferenze, è che si perda ulteriore tempo – consci della lentezza e dell’inefficienza della burocrazia italiana – quando si potrebbe pianificare un’iniziativa basata sul restauro, sul risanamento e sul ripristino. Dato che il centro storico dell’Aquila – come dice l’urbanista Vezio De Lucia – “non è stato raso al suolo: è inabitato e inabitabile, ma non distrutto”.
E in considerazione, inoltre, delle abilissime maestranze locali che potrebbero operare nella parte antica dove i crolli, dicono i tecnici comunali, non superano il due per cento del totale.
I diversi comitati civici sorti all’indomani del terremoto, dopo tre anni, pertanto, all’unisono affermano che “dal 2009 ad oggi tutto è rimasto com’era. Eravamo convinti che la città potesse rialzarsi dopo il sisma. Ora invece in molti hanno perso la speranza”. Le scelte adottate in quei giorni, per volere soprattutto dell’allora Capo del Dipartimento della Protezione Civile, Guido Bertolaso, in particolare quella di spostare diverse migliaia di cittadini nei moduli prefabbricati, anche alla luce dei miliardi pubblici stanziati per la realizzazione di tutto ciò nonché delle inchieste giudiziarie poi esplose sulle varie “cricche”, non appare affatto casuale.
Tornano utili, perciò, le lezioni di Michel Foucault e David Harvey, per i quali al centro di tutto deve essere posto lo spazio, con una precipua valenza sociale.
Del resto il modello della New Town, sorta a non pochi chilometri di distanza dal nucleo urbano originario, può essere percepito come esperimento sociale, sulla base della riorganizzazione degli spazi vitali e quotidiani.
Parafrasando Italo Calvino e la sua “città ideale” si potrebbe dire che “L’Aquila 2” simboleggia l’ideale della “città perfetta”: ordinata, disciplinata e controllata dove nulla si può muovere senza autorizzazione o senza essere visto. Si crea, cosi, un nuovo modello di socialità, non spontaneo, poco autonomo, dove viene ridotto drasticamente quel diritto alla città, spesso sottovalutato, da cui invece si dovrebbe ripartire, per far tornare a volare L’Aquila. E spingere i cittadini oggi emigrati a tornarvi e a farla rivivere grazie al talento di ciascuno.
Perché il diritto alla città “non si esaurisce nella libertà individuale di accedere alle risorse urbane, ma è il diritto di cambiare noi stessi cambiando la città”, perché costruendo la città costruiamo noi stessi.
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