Sono tanti e sono disseminati un po’ ovunque. Collettivi che nascono in maniera spontanea. Quello che li accomuna è l’idea che ci possa essere un’alternativa alla progettazione calata dall’alto come frutto di processi decisionali elaborati da specialisti e burocrati, caratterizzata da tempistiche dilatate e influenzata da ragioni politiche non sempre pienamente conformi alle esigenze dell’ambiente sociale di riferimento. Sono estremamente convinti che bastino pochi, piccoli segni per innescare una nuova percezione e generare dinamiche virtuose di comunità, soprattutto in termini di senso di appartenenza e collaborazione attiva, in grado di sviluppare un sentimento identitario collettivo che manca troppo spesso nella città contemporanea.
Uno scenario perseguito in tal senso è quello della “partecipazione creativa”, nella quale sono gli stessi abitanti della città a plasmare un’idea e, successivamente, con le loro mani a costruire uno spazio da “abitare”. Tutti questi gruppi operano spesso su luoghi abbandonati e degradati, verso i quali non vi sono evidenti appetiti. Impiegano quasi sempre materiali di recupero e tecnologie costruttive leggere, realizzando interventi a basso costo.
Creare occasioni ed eventi è inoltre un fattore irrinunciabile, perché nel fare si incontrano le persone, perché nel dare un nuovo senso ai luoghi si stimolano diversi e originali circuiti di fruizione. Atelier di attività manuali e “cantieri aperti” vengono affiancati ad attività culturali, con lo scopo di spingere la popolazione a una presa di coscienza del proprio territorio e a un primo approccio alla comprensione del ruolo sociale dell’architettura.
In molti casi queste idee prefigurano situazioni temporanee. Elemento che accomuna i collettivi è tuttavia il leggere la temporaneità come un’opportunità, anziché come un limite: opportunità di sperimentare, senza sottostare necessariamente alle ferree regole del processo edilizio convenzionale.
Se in tempo di crisi le Grandi Opere Pubbliche sono difficilmente attuabili, c’è chi propone dunque un piano di Piccole Opere Pubbliche. È diverso il modo di rendere economicamente sostenibile il progetto dei diversi collettivi (sponsorizzazioni pubbliche, private, autofinanziamento), ma è innegabile che lavorare small introduca talvolta nuovi, rapidi ed efficaci modelli di modificazione puntuale della realtà urbana. Perché non è solo con le grandi opere che l’architettura può fare la differenza nella vita delle persone.
Nelle immagini vengono descritti e documentati interventi dei seguenti collettivi: Collectif Etc, Todo por la Praxis, Boa Mistura, Orizzontale.
articolo di Pietromaria Davoli* e Elena Macchioni**
* Ph.D e professore straordinario di Tecnologia dell’Architettura presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara. Responsabile della sezione Architettura del Centro Architettura>Energia ** Architetto libero professionista a Reggio Emilia, diplomata alla Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e Paesaggio dell’Università degli Studi di Genova
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