È stato presentato ieri il Rapporto Ance-Cresme su “Lo stato del territorio italiano – Rischio sismico e edifici industriali”. Le zone a elevato rischio sismico sono il 44% della superficie nazionale italiana (cioè 131mila kmq) e riguardano il 36% dei comuni. In queste aree vivono 21,8 milioni di persone, 8,6 milioni di famiglie in circa 5,5 milioni di edifici tra residenziali e non. Il rischio è aumentato dalla condizione di elevata vulnerabilità del patrimonio edilizio italiano, costruito per più del 60% prima del 1974, cioè prima dell’entrata in vigore delle primissime norme antisismiche. Al 2011 i capannoni a uso produttivo sul territorio nazionale erano in tutto 325.427. Solo il 7% degli edifici produttivi risale a prima del 1950, oltre il 70% agli ultimi 40 anni, 4 capannoni su 10 sono stati realizzati tra il 1971 e il 1990 e quasi 3 su 10 sono stati costruiti dopo il 1990. Subito la proposta del CNAPPC che, nel corso della presentazione, ha avanzato alcune proposte, in sintesi: autorizzare subito interventi nelle zone maggiormente a rischio per prevenire il rischi sismico, ristrutturare il patrimonio edilizio a rischio e risolvere il problema del dissesto idrogeologico, partendo subito.
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Regioni a rischio
Le regioni più colpite dal problema dell’esposizione del patrimonio edilizio al rischio sismico sono la Sicilia e la Campania.
Al primo posto c’è quindi la Campania in cui 5,3 milioni di persone vivono nei 489 comuni a rischio sismico elevato, seguita dalla Sicilia, con 4,7 milioni di persone distribuite in 356 comuni a rischio. In Calabria tutti i comuni sono coinvolti (2 milioni di persone).
Nel Lazio 1,9 milioni di persone è a rischio, nelle Marche quasi 1,5 milioni e in Emilia Romagna quasi 1,4 milioni). Anche in queste regioni il rischio sismico è quindi elevato.
Edifici a rischio
10,7 milioni di abitazioni e 5,4 milioni di edifici sono nei territori più a rischio (Sicilia e Campania): gli edifici residenziali sono l’86%, quelli non residenziali (scuole, ospedali, alberghi, chiese, centri commerciali) il 14%. All’interno di questo 14% anche gli edifici non utilizzati.
In Emilia Romagna ci sono 12.302 edifici a uso produttivo ad alto rischio sismico; nelle Marche 10.519.
Più di 2,5 milioni sono gli edifici a uso residenziale in pessimo o mediocre stato di conservazione. Di questi oltre 2,1 milioni gli edifici costruiti prima del 1974.
Età del patrimonio edilizio
Lo stato di conservazione degli edifici in molti casi è pessimo. Tale stato aumenta il rischio naturale e va ad accrescere le percentuali di rischio. In Italia 7 milioni di edifici sono stati costruiti prima del 1971 e 4 milioni di edifici sono stati costruiti negli ultimi 30 anni.
La normativa antisismica per le nuove costruzioni è entrata in vigore nel 1974 (Legge n.64/1974): gli edifici realizzati prima sono stati costruiti senza seguire alcuna norma. Anche gli edifici costruiti dopo il 1974, anche se erano in regola rispetto alla legge vigente al momento della realizzazione, potrebbero non essere conformi alla normativa sismica di oggi.
La reazione degli edifici al terremoto in Emilia Romagna
La Regione Emilia Romagna ha diffuso dati in base ai cui si può affermare che il settore residenziale ha complessivamente reagito bene al terremoto, con il 37% degli edifici dichiarati inagibili.
Il settore non residenziale ha più problemi: dei 2.052 sopralluoghi fatti sugli edifici privati a uso produttivo, solo il 27% è agibile e quasi il 50% è totalmente inagibile.
Nel corso della presentazione del rapporto, Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, ha lanciato una proposta: “Identificare e perimetrare – con la collaborazione di alcuni Comuni, e ci sono già i possibili candidati – aree a grave rischio idrogeologico o sismico, nelle quali la situazione di degrado del patrimonio edilizio si accompagni a quella sociale; disegnare, su queste Zone-Zero, un masterplan che abbia il compito di definirne esclusivamente le volumetrie ed i profili, indipendentemente dalla pianificazione già approvata, lasciando che le uniche regole siano: il consumo del suolo a zero, la sicurezza sismica, la passivazione degli edifici, il ciclo dei rifiuti risolto alla fonte, una mobilità alternativa, il risparmio idrico, il rispetto dei vincoli monumentali”.
E continua: “In questo modo sarebbe possibile autorizzare rapidamente interventi ed investimenti privati finalizzati, con la regia dei Comuni, a rigenerare le Zone, accedendo ad uno strumento finanziario, costituito con la Cassa Depositi e Prestiti. Strumento che, mettendo a reddito i risparmi energetici e gli aumenti di volumetria, sia in grado di finanziare gli interventi del grande player immobiliare, così come del singolo cittadino. Gli oneri dovuti ai Comuni sarebbero destinati, in via esclusiva e fuori dal Patto di Stabilità, a risolvere le cause del dissesto idrogeologico e a ridisegnare gli spazi pubblici. Con strumenti come questi la KfW (la Cassa Depositi tedesca) ha messo in campo investimenti di rigenerazione urbana per 60 miliardi di euro, ricavandone anche un utile economico”.
“La proposta – ha concluso il presidente degli architetti italiani – nasce innanzitutto dal bisogno urgente di interventi capillari, e non più procrastinabili, di manutenzione del patrimonio edilizio e di prevenzione del dissesto idrogeologico, per evitare ulteriori vittime e danni, che, troppo spesso, si registrano nel nostro Paese. Avviare sperimentazioni che non abbiano bisogno di nuove norme, vuole ovviare ai tempi troppo lunghi della burocrazia, nella consapevolezza che ci vorrebbero anni per approvare una Legge nazionale sull’assetto del territorio e un Testo Unico per l’edilizia; nasce soprattutto dalla consapevolezza che gli investimenti pubblici non potranno che essere solo di modesta entità”.
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